Se ai PF togliete il market timing, cosa resta?

La scorsa settimana vi avevamo chiesto quanto pesa il mix di prodotti che siete in grado di offrire, al netto della vostra capacità professionale di raccordare al meglio le esigenze della vostra clientela con i prodotti e servizi che la mandante vi mette a disposizione. Una domanda che sorgeva spontanea visto che se a livello complessivo il risparmio gestito batte ampiamente l’amministrato, per alcune importanti realtà come Mediolanum è vero l’opposto.

 

Alcuni di voi hanno giustamente notato come non sempre si tratti di una scelta volontaria del promotore, tanto che qualcuno ha proposto che si arrivi ad una situazione come in Inghilterra dove si è istitutita una “consulenza di stato gratis per le fasce più deboli, che poi sono quelle più tartassate e bisognose” . Anche perché se in generale il gestito “genera management fee e paga commissioni di collocamento più alte” e quindi spinge la maggioranza dei professionisti a “spingerlo” il più possibile in strutture come Mediolanum l’amministrato è di fatto frutto della promozione del conto Freedom, mentre il gestito viene spinto meno che in altre strutture perché l’offerta appare cara e senza eccessivi appeal sul fronte delle performance.

 

Nell’uno come nell’altro caso, insomma, molti PF sembrano sentirsi il classico vaso di coccio tra vasi di ferro che evitano accuratamente di farsi troppa concorrenza a livello sia di prezzo sia di qualità dei propri servizi e prodotti. A questo punto al professionista dovrebbe restare la leva del market timing, ossia la capacità di orientare per tempo le scelte della clientela verso le differenti tipologie di prodotto anche all’interno del solo gestito. Farlo al meglio consentirebbe (sempre che si abbiano i necessari strumenti previsivi e un team di gestione alle spalle in grado di non vanificare lo sforzo fatto dalla rete) di migliorare di molto i rapporti con la clientela stessa e di dare un contributo in termini di valore aggiunto tale da compensare almeno in parte eventuali defaillance dei singoli prodotti. 

 

Ma allora, con tassi ai minimi storici da oltre un anno e una ripresa che sia pur lentamente inizia a dare qualche segnale positivo, perché la gran parte delle reti italiane sembra ancora intenta a spostare la clientela su prodotti obbligazionari, che a marzo, come ha testimoniato Assogestioni la scorsa settimana, hanno raccolto 3 miliardi vedendo il patrimonio salire a 173 miliardi di euro? Una scelta strategica legata a previsioni incerte e alla storica avversione per il rischio di un popolo di ex “Bot people” che stenta ad abituarsi alla maggiore volatilità degli strumenti azionari? E in questo caso, visto i livelli commissionali più bassi di questa tipologia di prodotto, quale può essere l’appeal per mandanti e promotori? 

 

Il sospetto è che restino sempre e solo gli ultimi prodotti “gestiti” con cui trattenere il cliente prima di dirottarlo sull’ancor meno remunerativo amministrato, ma siamo sicuri che vi saranno spazi per i gestori per guadagnare col trading e la gestione di portafoglio quel tanto che basta a giustificare la presenza in portafoglio di prodotti più costosi e dunque meno competitivi dei “semplici” titoli di stato (che pure hanno avuto necessità di un cap imposto per legge alle commissioni di collocamento per evitare di offrire rendimenti negativi agli investitori)? Raccontateci la vostra esperienza e come avete superato contraddizioni e difficoltà quotidiane nella professione, inviando i vostri commenti e riflessioni qui

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