I PF in coro: anche per l’assicurativo occorre cambiare politica

La nostra “provocazione” di ieri sembra aver colto nel segno:  il matrimonio tra risparmio gestito e previdenza complementare sembra non funzionare per motivi che i più scafati tra manager e promotori italiani comprendono fin troppo bene. Tanto che “un manager che vorrebbe essere messo nelle condizioni di lavorare” commenta: “E’ evidente per chi capisce che si spinge l’assicurativo per vincolare i clienti e le eventuali uscite verso altre strutture dei promotori, ingessando i capitali, oltre ovviamente ai maggiori ricavi per le banche e per i promotori” almeno a breve periodo.

 

“Ma se i C/C e i Btp fossero remunerati come l’assicurativo sia di front che di fee management e per contest e budget – si chiede il manager – i dati di raccolta Assoreti di alcune banche sarebbero gli stessi di oggi?” La risposta è probabilmente negativa e il lettore di Bluerating prosegue: “Ma allora dove sta la consulenza verso la clientela? Cari signori sarà meglio cambiare politica, perché se si continua così a fare questo lavoro non rimarrà più nessuno”.  E un altro collega aggiunge: “Come si può chiedere al PF di farcela? Si pensi a valorizzarlo, a farlo lavorare non come venditore ma come professionista. Solo allora potrà essere riconosciuto come tale ed estrarre dalla sua figura tutto il suo valore sociale ed educativo”.

 

A questo punto la domanda sorge spontanea: a chi compete cercare di cambiare le cose? Al legislatore con nuove norme? Alle autorità di controllo, migliorando l’attività ispettiva? Ai promotori stessi, che potrebbero guardarsi intorno singolarmente premiando quelle strutture che appaiono maggiormente impegnate sul versante della formazione professionale? O alla clientela, che in fin dei conti ha sempre in mano la possibilità con una firma di spostare i capitali da un operatore a un altro? Sempre, ovviamente, che sia in grado di farlo avendo potuto disporre di sufficienti informazioni al riguardo, cosa che non sempre è vera anche perché, come notano alcuni, molti dei media italiani sono in mano a gruppi finanziari e/o industriali, più che a editori puri. E dunque sono a loro volte molto spesso in evidente conflitto d’interesse coi propri azionisti. Come sempre mandate i vostri commenti qui

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