Draghi al G20: nuove regole per i rating

Ultime ore prima dell’apertura del G20 di Seul e tanti i temi sul tappeto, a partire dai rapporti di cambio con Europa, Stati Uniti e Giappone che verosimilmente rinnoveranno le pressioni su Pechino per ottenere una più robusta rivalutazione dello yuan, tanto più dopo che il Pil cinese del terzo trimestre è apparso in crescita del 9,6%. Se sulle nuove regole in materia di requisiti patrimoniali il Financial Stability Board guidato da Mario Draghi ribadisce che occorre cercare di non trovarsi più ad avere banche “troppo grandi per fallire” e che il “rischio morale” va in qualche misura ridotto con più stringenti vincoli patrimoniali, lasciando tuttavia la questione aperta e alla discrezione dei singoli paesi, oltre che del G20 nel suo consesso, se adottare, come e quando le nuove norme, un tema sembra poter raggiungere una sufficiente unanimità di consensi.

 

Si tratta della proposta, avanzata da Draghi e dai suoi colleghi, di ridurre la “meccanica” dipendenza del sistema finanziario dalle agenzie di rating. Finite sotto accusa per accorgersi sempre e solo “ex post” di situazioni di crisi, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch sono da tempo sul banco degli imputati e se il suggerimento di Draghi venisse accolto in un prossimo futuro potrebbe non essere più un requisito indispensabile dotare di un rating un qualsivoglia strumento finanziario. Visti i guasti provocati dall’attuale oligopolio l’idea ha un suo fascino, ma rischia di presentare un rovescio della medaglia altrettanto pesante.

 

Senza alcuna forma di valutazione del merito di credito, infatti, come sarà possibile a un gestore patrimoniale o a un fondo comune investire in determinati strumenti o emittenti? Farlo alla cieca rischierebbe di riprodurre situazioni simili a quelle che in Italia hanno portato ai crack Cirio o Parmalat, rinunciare a investire significherebbe, specie in caso di rendimenti schiacciati sui minimi come quelli attuali (e che verosimilmente resteranno nel prossimo futuro), doversi forzatamente accontentare di rendimenti decisamente modesti. Delegando ai soli strumenti “alternativi” (come fondi hedge, o di private equity o di venture capital) la possibilità, magari dopo opportune due diligence, di fare investimenti “a rischio”.

 

Ma tali strumenti non sono certamente alla portata di tutti né è desiderabile che lo diventino, non fosse altro per la scarsa cultura finanziaria che caratterizza vasta parte degli investitori comuni in Italia come all’estero. Eppure qualche scossa sarà necessario introdurla per evitare che tra l’indifferenza e la connivenza in breve tempo tornino a riprodursi quelle condizioni che portarono due anni or sono allo scoppio della peggiore crisi finanziaria degli ultimi settant’anni. E voi che ne pensate, il rating serve o è inutile e se è inutile con cosa occorrerebbe sostituirlo per garantire maggiore trasparenza agli investitori grandi e piccoli? Attendiamo come sempre le vostre riflessioni sulle pagine di Bluerating.

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