ESCLUSIVA Promotori – Il primo estratto da Jurassic Bank

Da JURASSIC BANK
11 dicembre del 2009. L’appello.

Sull’appello, naturalmente, avevo molte speranze e molti timori. Il mio avvocato, Sanbernardo, mi “pompava” assicurandomi che nella Corte d’Appello di Cuccagna c’erano giudici molto competenti che leggevano accuratamente gli atti. E in ogni caso, lui avrebbe portato tutte le sentenze della Cassazione citate dal giudice e dalla controparte e le avrebbe lette ad alta voce, per ricordarle ai giudici della Corte.
Sanbernardo, inoltre, aveva ridotto la stesura del ricorso a una ventina di pagine, concentrandolo su un solo punto: la Cassazione aveva affermato che un incarico manageriale si doveva ritenere liberamente revocabile solo quando questo era previsto per iscritto. E dato che nel mio contratto questa clausola non esisteva, e non c’era stata concorrenza sleale, la banca non poteva rimuovermi dall’incarico.
Io da un lato volevo credergli, ma dall’altro temevo fondamentalmente che i giudici dell’appello non volessero contraddire la loro collega, e che l’avvocato della banca si “inventasse” qualche scappatoia a cui non avevamo pensato.
La mia esperienza in primo grado mi aveva segnato negativamente: la distanza dal giudice, l’impossibilità di interloquire, di presentare la mia versione dei fatti, la sensazione che il mio destino si giocasse non su questioni di sostanza, ma su dettagli per me insignificanti come “l’accessorietà ”, il fatto che fosse espressamente citata o no la “libera revocabilità dell incarico di manager”, avevano messo a dura prova le mie convinzioni e la mia fiducia nella giustizia.
D’altro canto, però, non potevo non essere ottimista. Sapevo di essere dalla parte della ragione e che il mio caso sarebbe stato giudicato da una delle migliori Corti d’Appello di tutto il Paese. Sapevo che avere giustizia è faticoso, ma possibile. La giustizia esiste, e alla fine non può non trionfare.
Almeno, lo speravo…
La mattina dell’11 dicembre ero lì, nella sede del Tribunale del Lavoro, in via P***, a Cuccagna.
Avevo convocato un mio amico regista per riprendere l’evento, ed erano venuti anche tanti amici, ansiosi di sapere come sarebbe andata a finire. Tutti volevano entrare in aula, ma lo evitai, perché non volevo una claque che sembrasse far pressione sui giudici.
In una specie di aula di scuola, situata in un edificio moderno, c’erano 4-5 file di banchi in cui erano seduti, in ordine sparso, gli avvocati delle cause che precedevano la mia, e alcuni dei loro clienti. In fondo, di fronte, c’era una specie di lunga cattedra, a cui sedevano i tre giudici – tutte donne, tra l’altro – e qualche cancelliere o assistente.
Non c’era microfono; la porta rimaneva spesso aperta sul corridoio dove c’era un continuo passaggio, per cui non era semplice neanche ascoltare. Scrutai i tre giudici, per cercare di capirne la psicologia: chi erano, che cosa pensavano di tutta quella fila di postulanti? Ne avevano abbastanza di quel lavoro, o ci provavano ancora gusto? Volevano semplicemente sbrigarsi o, invece, approfondivano, cercavano di capire a fondo come si erano svolti i fatti, da che parte era la ragione e da che parte il torto – o, almeno, da che parte c’era più ragione, e da che parte più torto?
Dopo un po’ di attesa, ecco arrivare l’avvocato Velociraptor. Com’era diverso dal mio! Velociraptor Mongoliensis era algido, longilineo, compassato. Indossava un cappotto di ottimo taglio, e aveva un cappello Borsalino in tinta e guanti di camoscio chiaro. Sotto il cappotto sfoggiava una morbida giacca di cachemire e una camicia con i gemelli. I capelli argentei, ravviati all’indietro, forse un po’ lunghi, terminavano sulla nuca con dei riccioli: quel tocco bohemiénne appena necessario per non far apparire la sua immagine troppo rigida.
Il mio avvocato, invece, era in sovrappeso, e sembrava già un po’ sudato, nonostante la temperatura nell’aula non fosse affatto torrida. Il retro della sua giacca era sgualcito. Mentre la borsa del Velociraptor era impeccabile, quella del mio avvocato era gonfia di documenti che debordavano, oltre a quelli che aveva già appoggiato sul suo banco di scuola e che sembravano sempre sul punto di cadere – cosa che puntualmente accadde, inducendo il Velociraptor a sollevare il sopracciglio.
Pensai che davvero, se avessi perso questa causa gli avrei bruciato l’ufficio, al mio avvocato. E poi mi rendevo conto dell’abissale diversità che divideva me e la Jurassic Bank. Ma come potevo illudermi di andare d’accordo con una struttura del genere, che poteva contare su avvocati del genere, io che ero del tutto diverso e mi sceglievo degli avvocati stazzonati come le loro giacche?
Ma a quel punto toccava a noi.
Uno dei due giudici a latere introdusse l’argomento.
«La questione è complessa», disse. «Ci sono molti elementi che entrano in giudizio e che rendono la decisione articolata. C’è anche una sentenza in primo grado di cui tener conto. »
Il giudice non menzionò la concorrenza sleale. Non fece neanche cenno alle “gestioni speciali” di cui, peraltro, avevamo diffusamente parlato nel ricorso. Ritornai a riflettere su certe incongruenze che mi parevano assurde: la mia vita dipendeva dall’interpretazione di una clausola di “libera revocabilità dell’incarico di manager di promotori finanziari”, mentre di irregolarità e abusi enormi come le “gestioni speciali” non si poteva neanche parlare.
«Le controparti hanno provato a raggiungere un accordo? » chiese il giudice.
Insomma, il giudice non ci diceva a che cosa stava pensando. Mi pareva evidente che, se avesse semplicemente voluto confermare la sentenza di primo grado l’avrebbe fatto, e fine della storia. Se ci diceva che la questione era complessa e articolata – pensai – significava che aveva riscontrato degli elementi a nostro favore. Ma se c’erano elementi a nostro favore, perché ci chiedeva se avevamo raggiunto un accordo, e non ci diceva da che parte era la ragione e da che parte il torto?
Alla domanda sull’eventuale raggiungimento di un accordo, il mio avvocato rispose francamente di no; il Velociraptor, invece, disse che gli pareva di ricordare che, a suo tempo, all’inizio della causa, di fronte alla nostra richiesta di un risarcimento di un milione di euro ci avesse offerto qualcosa come 50.000 euro.
Io di quest’ultima offerta non mi ricordavo affatto, però mi dissi che ammettere di averci fatto un’offerta era come ammettere di aver avuto torto.
A questo punto immaginai che il mio avvocato avrebbe chiesto al giudice di andare avanti e scoprire le sue carte. Invece, disse che se la controparte avesse fatto un’offerta ragionevole noi avremmo anche potuto accettarla.
«Ma che cosa intende per offerta ragionevole?» chiese il giudice.
Il mio avvocato si voltò a guardarmi, vide che io non ci capivo più nulla e chiese al giudice di aggiornare la seduta per un quarto d’ora in modo da conferire con me.
Anche il Velociraptor, dal canto suo, accettò la sospensione perché – guarda un po’ – non era autorizzato a intavolare una trattativa, e non sapeva che cosa poteva offrire. Anche questa volta, come in tutte le altre udienze del primo grado, non c’era nessun rappresentante della banca con lui. Come dire: era sempre stato arcisicuro di vincere, al punto che non aveva chiesto istruzioni per affrontare la richiesta di una transazione.
Uscimmo in corridoio. Volevo capire che cosa stava succedendo. Il mio avvocato mi spiegò che, secondo lui, il tentativo di conciliazione extragiudiziale era di prammatica. Prima di tutto, studiare a fondo il caso, giudicare ed emettere sentenza era impegnativo e comunque sgradevole. Anche se il giudice intravedeva nelle nostre motivazioni la nostra ragione, non poteva smentire completamente la sentenza di primo grado, per cui avrebbe dovuto comunque barcamenarsi. E poi, chiederci di arrivare a un accordo era un modo per farsi un’idea delle controparti: chi avesse negato la propria disponibilità all’accordo non avrebbe mostrato la sua forza, ma piuttosto l’intenzione di non voler tener conto di una raccomandazione del giudice, e si sarebbe messo in cattiva luce.
Per questo dovevamo per forza fare un’offerta. E poi saremmo stati a vedere la loro reazione. Già, secondo il mio avvocato, il fatto che il Velociraptor avesse ammesso che l’offerta precedente era stata risibile e che al momento non era autorizzato a trattare una transazione non gli aveva fatto fare una bella figura. «Vedremo poi come reagirà», mi disse. Ma che proposta avremmo dovuto fare noi?
Ci accordammo per una cifra ragionevole, in modo che sia il giudice, sia la controparte non potessero accusarci di follia: l’azzeramento della sentenza di primo grado e un milione di euro. Rientrammo.
Facemmo la proposta. Il giudice interrogò in proposito il Velociraptor, il quale rispose che avrebbe riferito al suo cliente.
Allora il giudice ci invitò, visto che c’era comunque una sentenza negativa per noi in primo grado, a rinunciare a qualcosa. «Che ognuna delle parti rinunci al 50%.»
Noi, allora, da un milione scendemmo a 500.000 euro.
Loro, che avrebbero dovuto avere 360.000 euro, rinunciarono alla metà, quindi a 180.000 euro.
Alla fine, facendo la differenza tra ciò che chiedevamo noi e ciò che chiedevano loro, il risultato fu di 320.000 euro; se loro ce li avessero dati, noi l’avremmo finita lì.
Il giudice scrutò entrambi gli avvocati come se si fosse trattato dell’ultima spiaggia.
Sanbernardo si voltò a guardarmi.
A me sembrava di essere in televisione, da Affari tuoi. Il “Dottore” mi stava facendo un’offerta di 320.000 euro; io avrei potuto avere un pacco con un milione di euro, ma anche averne un altro che mi costringeva a pagarne 500.000. Non sono mai stato un giocatore d’azzardo, ma il calcolo delle probabilità mi consigliò di optare per i 320.000.
Incrociai lo sguardo di Sanbernardo e gli feci un cenno d’assenso.
Il Velociraptor, dal canto suo, rispose che avrebbe riferito al suo cliente. Non sapevo se era un segno di pochezza (non avere carta bianca, non avere il diritto di trattare senza autorizzazione dall’alto) oppure un’ultima astuzia, un ultimo tentativo di dilazione, di rimandare sempre tutto all’infinito.
La seduta venne aggiornata al 25 febbraio. Il giudice spiegò agli avvocati che avevano tempo fino al 10 febbraio per arrivare a una transazione. Nel caso in cui avessero raggiunto un accordo potevano limitarsi a mandare una mail con i termini della transazione: a quel punto la seduta sarebbe stata semplicemente una presa d’atto. Se invece non ci fosse stato accordo, la seduta del 25 febbraio avrebbe previsto un dibattimento, e quindi un pronunciamento.
E io, intanto, friggevo.

Continua… intanto mi raccomando: se devi sceglierti una banca, per lavorarci o per affidarle il tuo patrimonio, sceglitene una giusta, con dirigenti onesti e corretti. Ti risparmierai un sacco di guai e soprattutto avrai fatto qualcosa per avere un sistema bancario più efficiente. Nicola Scambia per gli amici JACKFLY

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