Promotori – Un contratto quadro per i pf

di Fabrizio Tedeschi

Il settore della promozione finanziaria è sempre stato un fattore di innovazione nella intermediazione mobiliare. Ora è giunto a un elevato grado di maturazione e si pone il problema del proprio consolidamento. All’ultimo congresso dell’ANASF, tra le varie proposte, si è discusso di un contratto standard o benchmark di categoria. Nulla di strano o di sconveniente; i promotori finanziari svolgono un’attività di collaborazione parasubordinata rigidamente disciplinata dalla legislazione pubblica; può essere opportuno, per entrambe le parti del rapporto, stabilire alcuni principi base di autodisciplina. La difficoltà di un contratto quadro nasce dalla varietà di situazioni da prevedere e soprattutto dalle diverse figure dei professionisti impegnati nell’attività: si va dal giovane al primo lavoro all’affermato professionista (variamente denominato: “portafoglista”, private banker, etc.) corteggiato (e strapagato) da tutte le case di distribuzione. Inoltre, considerata l’elevata personalizzazione insita nei rapporti dei promotori sia con i clienti sia con le società mandanti, un contratto standard non è possibile. Come pure appare difficile definire condizioni univoche per tutti gli intermediari perché hanno diversi modelli organizzativi. La strada di una sorta di contratto collettivo, benché giuridicamente possibile, appare alquanto in salita. Una via percorribile potrebbe essere quella di approvare un documento di linee guida dell’attività di promotore da parte dell’associazione di categoria, magari in collaborazione con ABI e Assoreti e validate dalla Consob.

Una sorta di safe harbour per entrambe le parti. Nulla impedirebbe di elaborare contratti e clausole di diverso tenore, ma questi dovrebbero essere motivati e, in caso di controversie, sottoposti al controllo delle autorità e anche della magistratura nei loro diversi aspetti, in particolare per il rispetto della MiFID. Quello della conformità alla normativa di settore è un aspetto del problema largamente sottovalutato. Il punto è di rilevanza notevole soprattutto nella fase una volta definita di “reclutamento” e che oggi assomiglia sempre più al mercato di ingaggio dei calciatori. In questa fase si stabiliscono incentivi, premi, anticipi e vari contributi per il cambio di casacca. Questa situazione “transitoria” di passaggio da una casa all’altra non sempre è sufficientemente rispettosa degli interessi del cliente; certamente lo è di quelli del promotore e dell’intermediario. Al “premo d’ingaggio” sono poi collegate clausole variamente denominate di “stabilità”, “fedeltà”, “non concorrenza” e altro che impongono, con gravose penali, la permanenza minima di alcuni anni del nuovo venuto nella squadra. Queste clausole potrebbero ledere la libertà d’impresa e di lavoro del promotore con possibili riflessi sull’interesse della clientela. La quadratura del cerchio non è facile, perché i protagonisti hanno p o s i – zioni a volte contrapposte e la parte più tutelata dalla legge, i clienti, non partecipa alle trattative e al contratto, ma ne è l’oggetto. Il punto critico è proprio questo e andrebbe in qualche modo definito. Il cliente è, secondo la legge, patrimonio dell’azienda, ma di fatto il mercato si comporta come se “appartenesse” al promotore: questi viene remunerato sul portafoglio, l’ingaggio avviene sulla base del portafoglio, etc. Tutto ruota intorno al cliente, ma questi non è mai protagonista. Una volta che le parti avessero definito, con l’approvazione dell’autorità, questo aspetto del problema, si potrebbero più facilmente definire gli altri, ad esempio ponendo un tetto quali/quantitativo ai premi d’ingaggio, prevedendo di contro una modalità e relativi limiti per le penali in caso di cambio di casacca. E così via per tutte le altre clausole meno critiche.

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