Marsi (Schroders): “Passa sempre tutto dalle banche in Italia”

Il private banking italiano deve affrontare nuove sfide. Merito di un mercato che sta cambiando grazie a nuove normative e a margini sempre più ridotti. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Marsi, ceo di Schroders Italy Sim.

Costa sta succedendo nell’industria del private?
A livello globale ci sono due fattori che avranno influenza sull’industria. Uno è la detenzione dei capitali all’estero degli americani che avrà un forte impatto sui paradisi fiscali come la Svizzera (che ha annunciato di aver raggiunto un accordo con gli Usa per lo scambio di informazioni sui fondi depositati presso gli istituti di credito elvetici e non dichiarati al fisco statunitense, ndr). E dato che l’Europa la seguirà a ruota, la piazza del Caton Ticino dovrà necessariamente ricollocarsi e seguire nuovi modelli. Si assisterà, quindi, a un riposizionamento delle banche elvetiche a livello globale. Basti vedere l’alleanza strategica tra il gruppo elvetico Julius Baer e Kairos Im, a mio avviso un’acquisizione differita più che dilazionata. E ancora, Azimut che va verso acquisizioni di piccolo-medio taglio.

Mifid e regulatory stanno appesantendo l’industria, i cui ricavi sono già risicati. Cosa ne pensa?
Assolutamente sì. La Mifid e l’aumento delle richieste regolamentari hanno fatto diminuire moltissimo i ricavi. Il private così è stato penalizzato molto rispetto ad altri business, perchè è difficile fare leva, è frammentato e in Italia la parte più corposa è in mano alle banche italiane che hanno il canale di distribuzione propria. Inoltre c’è da chiedersi che cosa sia il private banking. Secondo me è un servizio che mira ad avere clienti e a facilitare l’accesso ai mercati finanziari in modo attivo e passivo. Questa attività viene marginalmente svolta dalle banche italiane che hanno una vena commerciale mentre gli esteri curano solo gli attivi e non i passivi e, di conseguenza, questo limita i ricavi a una sola voce. Il ricavo di una banca private dovrebbe essere più differenziato.

Come ci vedono gli altri in questa fase?
Questo è un problema. I grossi player internazionali ci stanno guardando con un macroscopico punto interrogativo, la situazione politica non dà tranquillità né sul medio né sul lungo termine. Tranne gli svizzeri, che oggi sono più pressati dal fatto che il segreto bancario verrà meno anche nei confronti dell’Europa e quindi si trovano davanti a una novità strutturale, gli altri guardano con più interesse al far east e si contendono piazze come Singapore e Hong Kong dove però, accanto alle storie di crescita reali, c’è pure una competizione altissima e costi ben diversi.

Ci sono ancora potenzialità sul mercato italiano?
Si, ce ne sono. Bisogna competere a 360 gradi non solo coi prodotti, bisogna fare distribuzione. Noi facciamo tutte e due, abbiamo un piede nella raccolta diretta col privateanche se non siamo arrivati ancora ad essere aggressivi. Per ora stiamo giocando di rimessa per vedere che succede sul mercato.

Il private banking potrebbe diventare un canale alternativo di accesso al credito per le aziende?
Sì, ed è una grande opportunità per tutti. Il vero problema che abbiamo in Europa, se la compariamo agli Stati Uniti dove accade il contrario, è che da noi il 20% va sul mercato dei capitali e l’80% va sul circuito bancario. Da noi manca l’opportunità del capital market. Ora si parla di fondi di investimento sui mini bond, di crowfunding ma non c’è ancora una vera a propria regolamentazione europea, il circuito passa sempre attraverso le banche. In altre parole, manca l’accesso diretto al mercato dei capitali: questo alleggerirebbe molto il mercato del credito bancario. A tutti i gestori, per esempio, si darebbe la possibilità di investire in titoli non quotati e si verrebbe a creare un fondo di garanzia con conseguenti opportunità di investimento anche per i per risparmiatori. L’Italia, tra i paesi europei, è in avanzo primario strutturale. Ora dobbiamo fare le riforme.

E sul fronte dei prodotti? Questo è il momento dove si stanno sperimentando strade sostitutive rispetto all’obbligazionario, vie di diversificazione, maggiore attenzione al rischo di credito. Tutto si gioca sulla capacità dei gestori di creare prodotti meno sensibili ai flussi altalenanti del mercato. Lo scorso anno tutti i clienti volevano Paesi virtuosi con basso indebitamento. Meno male che ci hanno ascoltato perché la maggior parte di questi ha perso in termini di cambio contro l’euro tra il 20 e il 25%. Nel mestiere del private banker, quello che conta di più è gestire l’emozione del cliente.

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