Promotori, per tutelare il portafoglio serve un patto di non aggressione

NON CONCORRENZA – Cosa dice la legge sul patto di non concorrenza? Per la legge italiana il patto di non concorrenza è una delle principali modalità contrattuali con cui una mandante può “fidelizzare” il suo promotore finanziario. Con tale patto, infatti, il pf si impegna a non svolgere attività concorrenziale rispetto alla mandante nel momento in cui il rapporto venisse meno. Si fa riferimento in particolare l’articolo 1751 bis del codice civile, che specifica i requisiti perché il patto sia valido. L’impegno deve assumere forma scritta, deve riguardare la stessa zona, clientela e genere di attività pertinente per le quali era stato concluso il contratto principale e la durata del patto non può eccedere i due anni.

INDENNITA’ – Soprattutto, a fronte di tale pattuizione, al promotore finanziario dovrà essere versata un’apposita indennità, commisurata tra l’altro ai corrispettivi percepiti nel corso del rapporto d’agenzia. Se le mandanti cercano di tutelarsi dall’ipotesi che un loro promotore, sul quale hanno fatto un investimento di capitali e relazioni, possa vanificare gli investimenti medesimi agendo in concorrenza dopo l’interruzione del rapporto di lavoro, i promotori da parte loro spesso recriminano il fatto che le banche e gli intermediari finanziari cerchino di acquisire il patrimonio in gestione affidato al promotore stesso da clienti che, per quanto contrattualmente costituisca un partner contrattuale della mandante, al tempo stesso rappresenta un rilevante fattore di “avviamento” per il promotore e come tale deve essere tutelato.

TITOLARITA’ DEL PORTAFOGLIO – Per questo sarebbe meglio inserire, quando si formalizza il rapporto professionale, clausole che riconoscano esplicitamente la titolarità del portafoglio al promotore stesso, ovvero patti di “non aggressione” dello stesso da parte della mandante. Essendo il rapporto di agenzia del promotore finanziario generalmente a tempo indeterminato, vale l’articolo 1750 codice civile, che consente a entrambe le parti una risoluzione “discrezionale” del rapporto, nel rispetto del preavviso e della corresponsione dell’indennità di fine rapporto quando sia la mandante ad esercitare il diritto di recesso.

GIUSTA CAUSA – In caso invece di risoluzione del rapporto “per giusta causa”, la parte che l’ha effettuata avrà diritto al pagamento dell’indennità sostituiva del preavviso (oltre che dell’indennità di fine rapporto se a sciogliere il rapporto “per giusta causa” è stato il promotore). Giusta causa che deve peraltro essere riconosciuta dal giudice, il quale ove non ne ravvisi il fondamento condannerà chi l’ha avviata a versare l’indennità sostituiva del preavviso (oltre che l’indennità di fine rapporto se la giusta causa era stata assunta dalla mandante).

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