Il private equity italiano si è messo a dieta

A pasqua si è soliti eccedere negli alimenti, con conseguente senso di colpa e successiva dieta punitiva. Il mondo del private equity italiano si è virtuosamente tenuto lontano da eccessi pasquali; ma è comunque a dieta, e per giunta già da un bel po’. Un regime imposto dal mercato, a causa della crisi naturalmente, ma frutto anche delle difficoltà di un contesto specifico, una realtà marginale in un’ottica di investimento globale.

La verità è una: la maggior parte del mercato private equity sta trasferendo le proprie attività a Londra, accentrando lì la gestione stessa. In Italia i casi di mancati accordi e/o ridimensionamenti recenti sono numerosi e basta citarne quattro su tutti.

Il primo è il caso Bc Partners, che con un già minimo portafoglio made in Italy (esclusivamente Seat Pagine Gialle, componente azzerata dopo l’aumento di capitale), ha deciso di spostare gran parte del proprio team presso la City, con solo due senior partner rimasti a Milano.

In seconda analisi si può citare Candover, ancora scottata dall’investimento sugli yacht Ferretti (partecipazione ridotta a 0, da un valore iniziale di 1,7 miliardi di Euro), e che attualmente possiede in Italia solo Technogym.

Come non citare Investitori Associati e le sue difficoltà recenti con Ilpea, Upim e Grandi Navi Veloci e infine il mancato matrimonio tra Bs Private equity e Banca Leonardo.

Tra ridimensionamenti e mancati sposalizi, il private equity nostrano vive un momento problematico. Si dice che solitamente le delusioni portino ad affogare i propri dispiaceri nel cibo, con conseguente aumento della massa. Qui invece si sta dimagrendo a vista d’occhio; e farsi trovare pronti alla prova costume non è una consolazione.

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