Nonostante la crisi, i fondi “private” resistono

Lo studio  “How do private equity investors create value? – Beyond the bears”, che analizza i disinvestimenti più significativi da parte dei fondi nel periodo 2005-2009, ha rilevato per l’anno passato solo 30 exit in linea con i criteri metodologici, a dimostrazione della volontà della maggioranza dei fondi di evitare la vendita di asset quando le condizioni del mercato sono avverse.

Nel 2009 i corporate buyer sono rimasti inattivi, e il numero di uscite a beneficio di compratori strategici è rimasto ben al di sotto dei livelli registrati nel 2006 e 2007. Le secondary e tertiary exit a beneficio di altri fondi hanno rappresentato solo il 7% del totale l’anno scorso, in forte calo rispetto al 67% del 2008. Per la prima volta, il nostro studio rileva disinvestimenti a favore dei creditori, anche se rappresentano una minima parte del campione e sono molti meno rispetto a quanto previsto dagli analisti.

Umberto Nobile, Private Equity Leader di Ernst & Young per la Sub-Area Mediterranean, commenta: “Il continuo declino nel numero e nel valore delle uscite riflette lo scenario macro economico. A seguito della mancanza di finanziamenti e delle difficoltà presenti sui mercati, i fondi sono rimasti focalizzati sulla gestione delle società in portafoglio e, in alcuni casi, hanno reindirizzato la loro attività d’investimento verso acquisto dei debiti, investimenti in infrastrutture e i mercati emergenti.”

Continua Nobile: “Il 2010 è stato fino ad ora altalenante in termini di volumi. Il numero di disinvestimenti è cresciuto, spesso per via della vendita degli asset ad altri fondi, dovuta a maggiore disponibilità di debito e alla debolezza delle IPO nei mercati europei. Ci aspettiamo anche che il numero dei buyer industriali di partecipate di private equity incrementi grazie al loro miglioramento della solidità patrimoniale”.

Il numero ridotto di exit negli ultimi due anni ha portato quasi a raddoppiare l’età media dei portafogli dei fondi dal 2007: da 2 anni a 3,7. L’aumento del periodo di gestione dell’investimento ha comportato un rafforzamento dei private equity con team con esperienza nelle attività di miglioramento delle performance delle aziende partecipate .

Dichiara Nobile: “Sarà interessante vedere nei prossimi anni se questa maggior attenzione alle performance aziendali andrà ad aumentare la percentuale di ritorni attribuibili a miglioramenti strategici e operativi da circa un terzo di oggi a quasi la metà del totale.”

Nonostante il rallentamento nei disinvestimenti, i fondi hanno continuato a dimostrare che il modello di business del private equity supera il benchmark delle quotate. Negli anni dal 2005 al 2009 i migliori deal sono stati quelli in cui i fondi hanno avuto l’opportunità di dedicare tempo significativo per identificare e valutare le opportunità prima della procedura formale di acquisto. Ciò è avvenuto in oltre il 75% delle operazioni che figurano nel miglior quartile esaminato, e in quasi un terzo (31%) dei casi la valutazione è iniziata più di 12 mesi prima che la procedura formale avesse inizio. Al contrario, nel 73% dei deal che rientrano nel quartile più basso la valutazione è iniziale è avvenuta con non più di sei mesi di anticipo.

I fondi che hanno realizzato performance peggiori hanno avuto difficoltà ad implementare i propri piani, o perché le imprese non erano in grado di supportarli o perché il management non riusciva a metterli in pratica. La mancanza di tempo prima dei deal può anche aver portato ad analisi incomplete. Ciò sta portando verso un cambiamento nel settore e una maggior enfasi sugli aspetti commerciali e operativi di ciascuna opportunità di investimento.

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