Risparmio gestito – Il grande incubo

“La storia è un incubo da cui cerco di destarmi”. Con queste parole di Stephen Dedalus nel 1922, l’irlandese James Joyce faceva già riferimento alla capacità della letteratura, ma anche dell’arte in ogni sua forma, di conservare la memoria tragica della Storia, per i popoli e le nazioni. Peraltro, il popolo irlandese avrebbe oggi qualche ragione per invocare la preveggenza di Joyce di fronte alla miseria finanziaria ed economica in cui si trova immerso il paese. La tigre celtica è in ginocchio. Non a causa delle azioni sconsiderate del suo governo in materia fiscale, come è accaduto in Grecia, bensì a causa del sistema bancario privato, che ha abusato per troppo tempo e in modo sfrenato delle agevolazioni di credito offerte da investitori poco parsimoniosi. Ricordiamo, a chi vorrebbe limitare la promulgazione di nuove regole al settore pubblico, che nel 2007, poco prima della crisi, il debito pubblico dell’Irlanda si attestava solo al 12% del PIL e quello della Spagna al 27%, rispetto ad un livello del 50% in Germania e dell’80% in Grecia. 
Il problema dell’Irlanda oggi è quindi legato all’effetto leva del proprio sistema bancario. Anche in questo caso, permettetemi di ricordare che lo scorso luglio le banche irlandesi hanno superato con successo i famosi “stress test”, come 84 delle 91 banche europee partecipanti. I rapporti di capitale “tier 1” di Allied Irish Bank e di Bank of Ireland erano così rispettivamente del 6,5% e 7,1%. A che pro? Il parafulmine greco è durato solo il tempo di un’estate, la tempesta nel Mar d’Irlanda ha condotto ad un piano di salvataggio da 85 miliardi di euro con una difficoltà in più, di ordine politico. Gli ammontari sbloccati dall’Unione europea (EFSM ed EFSF) e dall’Fmi non servono a rimpinguare le casse dello Stato ma, indirettamente, il sistema bancario. Questa tregua alla crisi della zona euro è destinata a durare? Possiamo dubitarne. Da Fastnet al Portogallo il passo è breve. E poi? L’influenza spagnola? Non è da escludere.

Possiamo complimentarci con gli sforzi del governo Zapatero
, che è riuscito a ridurre di quasi il 47% il deficit di bilancio del paese nei primi 10 mesi del 2010 rispetto allo stesso periodo del 2009. Questo potrebbe comunque risultare insufficiente. La Spagna è un paese difficile da riformare (e in Francia sappiamo bene cosa significa) data la relativa indipendenza delle 17 province autonome, le cui finanze sono state corrose dalla crisi. Anche in questo caso, come in Irlanda, il problema deriva da un eccesso di leva finanziaria da parte del settore privato. E gli investitori sono in sciopero. Più in particolare dopo che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno trovato, lo scorso 18 ottobre, un accordo che costringerebbe gli investitori privati a versare contributi nel quadro del meccanismo di risoluzione della crisi. Si rimprovera oggi alla Germania di agire per conto proprio. Attirare l’attenzione sulla cattiva gestione del rischio che, col pretesto di una moneta comune e di un rating identico, ha condotto gli investitori a finanziare all’eccesso e senza discriminazione Grecia, Irlanda, Portogallo e Germania, è opera di igiene pubblica. Otmar Issing, in un recente articolo apparso sul Financial Times, fa bene a ricordarlo. La Germania è quindi reticente ad ogni futuro piano di salvataggio.
Poiché la crisi europea non è ancora finita, la sua conclusione non può essere opera dei soli Trichet e Strauss-Kahn. Sarebbe il colmo. Si realizzerà solo a prezzo della volontà politica dei nostri dirigenti. Una volontà che dovrà inevitabilmente derivare dalla Germania nel momento in cui sarà colpito un paese importante – un appuntamento politico con l’Europa che la Germania non perderà – sapendo anche farsi pregare prima di cedere. Poiché Grecia, Irlanda e Portogallo realizzano complessivamente solo il 6% del PIL della zona euro e reggono solo l’8,5% degli attivi bancari. La Spagna con oltre il 10% del PIL e il 10,8% degli attivi bancari è un caso serio. Si pensa già all’Italia con il suo debito del 120% del PIL, ma che dire della Francia e della sua grande sicurezza riguardo alla qualità del rating del suo debito? Con un deficit di conto corrente di circa il 4% del PIL, un deficit pubblico previsto da Bruxelles del 6,3% del PIL nel 2011 (contro il 2,7% per la Germania) e una crescita dell’1,6% (rispetto a quasi il 2% per la Germania), la Francia non dovrebbe inorgoglirsi troppo, dato che non vede un surplus di bilancio dal 1973!

La crisi non è quindi ancora finita, e nella gara della moneta meno attraente, l’euro è di nuovo in testa. La crescita economica nella zona euro rimarrà atona nel 2011 e la Germania, che mira ad un ritorno all’equilibrio di bilancio nel 2016, continuerà ad imprimere pressioni deflazionistiche ai suoi vicini. In questo contesto, e in assenza di una risposta monetaria all’americana da parte della Bce, il nostro posizionamento sulla zona rimarrà prudente, compresi i titoli azionari, nonostante i livelli di valutazione relativamente bassi e una notevole sottoperformance per alcuni mercati in un contesto di forte volatilità. Continueremo a privilegiare le aziende che beneficeranno della migliore crescita degli Stati Uniti o dei paesi emergenti.  Oltre atlantico, il “Quantitative Easing” procede spedito. Ad inizio mese, ci si poteva interrogare sulla fondatezza di questa nuova iniezione di liquidità di 600 miliardi di dollari, e Bernanke ha ricevuto le critiche più aspre dovunque negli Stati Uniti. La crescita USA è stata infatti rivista al rialzo per il 3° trimestre al 2,5%, con consumi in aumento del 2,8% e una revisione al rialzo delle esportazioni e degli investimenti. Il “Quantitative Easing” doveva forse generare inflazione, come sembravano temere i mercati obbligazionari in leggero rialzo nel periodo? Non è così evidente. L’immobiliare residenziale rimane un mercato moribondo, con flessioni del 27,5% e 25,9% su base annua, rispettivamente per le spese di costruzione e per il volume di vendite di abitazioni. L’inflazione rimane su livelli molto bassi (0,6% annuo rispetto ad un obiettivo prossimo allo 2%), che fanno temere alla Fed un ingresso in deflazione.
Inoltre, la Fed ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita per il 2011. Certamente, è molto meglio che da noi, nella vecchia Europa, ma la crescita prevista è stata riportata da una forchetta compresa tra il 3,5% e il 4,2% ad una fascia tra il 3% e il 3,6%. Secondo il governatore della Fed di Chicago, Charles Evans, l’inflazione potrebbe raggiungere a malapena l’1% a fine 2012 ed “è ragionevole anticipare” che nel 2013 raggiungerà solo l’1,5%. Per quanto concerne la disoccupazione, essa dovrebbe attestarsi intorno al 9% a fine 2011 e ad oltre l’8% a fine 2012, anno delle elezioni presidenziali statunitensi. Tali previsioni prudenti sono state confermate ad inizio mese. L’indice ISM dei Direttori d’Acquisto è sceso rispetto ad ottobre, anche se rimane al 56,6 ben al di sopra della soglia critica di 50, il che indica che la ripresa del settore manifatturiero sta procedendo. Ma la delusione è giunta soprattutto dai dati sull’occupazione. Con il 2,5% di crescita, l’economia statunitense non è ancora riuscita a creare occupazione. Ciò indica la sfiducia dei dirigenti di aziende nei confronti di un’economia da essi ritenuta ancora convalescente.

Bernanke ha subito preso il sopravvento, giustificando la propria proattività e affermando che se le misure già adottate si riveleranno insufficienti, non esiterà ad incrementarle. Ed ecco che già i commentatori ci parlano di QE3, un presunto 3° round di misure monetarie quantitative del tutto prematuro. Sebbene la disoccupazione permanga, la determinazione della Fed di foraggiare il sistema bancario con liquidità e riaffermare che i tassi rimarranno a lungo a zero, sosterrà e conforterà l’economia reale consolidando l’effetto ricchezza nella sfera finanziaria. In questo contesto, i rendimenti offerti sui Titoli di Stato rimangono poco interessanti. Il possibile futuro deterioramento di questa categoria di attivi non dovrebbe assumere troppo rilievo, data la debolezza dell’inflazione e dell’attivismo della Fed. Ciononostante, dopo simili afflussi di capitali su questa categoria obbligazionaria, per il 2011 non è da escludersi un riporto parziale sui titoli azionari. L’utile per azione dell’S&P 500 dovrebbe avvicinarsi a 95 dollari nel 2011, con relativo apprezzamento dell’indice, ai livelli attuali, attorno a 12,5-13x gli utili, un livello che ci pare relativamente interessante nella prospettiva che descriviamo.
Questo vale anche per l’universo emergente. Le valutazioni sono globalmente in linea con le prospettive di crescita e sebbene siamo indotti ad effettuare prese di profitto sui titoli che hanno già pienamente raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati, la rappresentazione di questo universo di investimento all’interno dei nostri portafogli dovrebbe rimanere importante. Questi mercati sono stati oggetto di un consolidamento nel corso del mese, il che non ha rimesso in discussione il loro vantaggio sull’insieme dei mercati internazionali con una progressione da inizio anno di circa il 20% in euro per l’indice mondiale delle azioni emergenti. Nel corso del mese, un viaggio in Brasile ha confermato la prima impressione che avevamo avuto all’indomani dell’elezione di Dilma Rousseff alla guida del paese, ampiamente sostenuta dal popolare ex-presidente Lula. Le nomine al governo sono rassicuranti e la politica dovrebbe mirare a consolidare i vantaggi e a proseguire il lungo cammino delle riforme. La crescita economica resterà forte nel 2011 e l’inflazione è sotto il controllo vigile della Banca centrale. In India, altro paese in cui la crescita è fondata essenzialmente sulla domanda interna, alcuni episodi di corruzione sono stati resi pubblici nel corso del mese, ma non sembrano aver in alcun modo destabilizzato significativamente il mercato. È un segno incoraggiante di vigore dopo l’afflusso di capitale riscontrato dal paese da inizio anno.
La Cina continua dal canto suo a soffrire di un male che vorremmo colpisse anche noi: un’economia troppo vigorosa. Questa crescita di oltre il 10% è accompagnata da pressioni inflazionistiche che non riescono ad essere contenute da un tasso di cambio ancora troppo controllato. La crescita dei crediti ha già raggiunto i contingenti massimi concessi alle banche dal governo, e gli ultimi dati sull’inflazione sono stati pubblicati al rialzo al 4,4% su base annua. C’è da preoccuparsi? A nostro avviso no. Da un lato, la componente alimentare ha ampiamente contribuito a questo deterioramento dell’inflazione e il governo ha già adottato alcune misure per controllare il prezzo delle principali derrate. Dall’altro lato, la Cina ha dimostrato nel corso del mese di essere ormai in grado di avviare misure macroeconomiche prudenziali. Siamo già usciti dall’era della crescita massima a qualunque prezzo. Il rialzamento del livello della riserva obbligatoria delle banche al 18%, e la contrazione dei tassi di riferimento indicano che la politica cinese si dirige verso una crescita un po’ meno sostenuta, ma più equilibrata, che consente al consumo interno di costituire, a termine, il principale contributo alla crescita. Il riequilibrio della crescita mondiale è quindi già effettivo.
Pertanto, si conferma il mondo a tre velocità. La virtù della disciplina tedesca imprime (a volte dolorosamente) il suo marchio all’economia della zona euro, al prezzo di una crescita prevedibilmente debole e di pressioni deflazionistiche che dovrebbero mantenere l’euro sotto pressione. Stando a quanto ci dice la Fed, negli Stati Uniti che temono la deflazione quanto la Germania teme l’inflazione, niente futuro senza crescita. Ci sarà quindi tutto il doping monetario necessario per sfociare in reflazione, in crescita e quindi in occupazione. Nelle economie emergenti infine, le quali mettono a segno un leggero rallentamento ma conosceranno la sorte invidiabile di una crescita media aggregata di oltre il 6% nel 2011.
Un contesto attraente per la categoria di attivi “più rischiosa”, le azioni, le cui valutazioni risultano nel complesso ragionevoli. Senza omettere le obbligazioni societarie che offrono ancora rendimenti che le mettono al riparo da un possibile inizio di normalizzazione rispetto ai rendimenti dei Titoli di Stato statunitensi e tedeschi.
Non mi resta che augurarvi buone feste, e dato che presto sarà Natale, permettetemi di sognare per un momento un’Europa dell’occupazione, un’Europa del bilancio, degli Stati Uniti d’Europa, come scriveva Churchill nel 1948: “Saremo fieri di dire: Sono europeo. Speriamo di vedere un’Europa in cui gli uomini di tutti i paesi pensino di appartenere all’Europa quanto alla loro terra natale. Ci auguriamo che ovunque andranno nel continente europeo possano dire: sono a casa mia, sono anche io un cittadino di questo paese, questi uomini sono anche miei fratelli, uniamo i nostri sforzi, lavoriamo insieme p

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