Il private equity torna a investire

Il private equity volta pagina e si candida a dare una mano all’economia italiana nella fase di “riaccensione” dei motori dopo la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni. Lo testimonia una ricerca di Kpmg per Aifi (Associazione italiana di private equity e venture capital) presentata la scorsa settimana presso l’Università Bocconi dalla quale emerge come i risultati più interessanti per gli operatori di private equity e i fondi di venture capital siano venuti, l’anno passato, proprio dagli investimenti effettuati in aziende con fatturato tra i 25 e i 125 milioni di euro, una dimensione media a livello nazionale ma relativamente modesta su scala europea o mondiale (e, al contrario, ancora “importante” per quelle aree d’Italia, come il Sud, dove le dimensioni aziendali restano troppo piccole. Meglio gli interventi a breve (4-5 anni di permanenza del fondo nel capitale aziendale) o a medio-lungo termine (6-7 anni) più che non a chi ha provato ad effettuare dei rapidi “mordi e fuggi”.

Paga, infine, entrare con una quota di minoranza che può andare dal 5% al limite del 50%: il fondo è un socio che deve saper creare valore per l’azienda ma che guadagna più se entra in società con obiettivi di crescita e di replacement affiancandosi e non sostituendosi all’imprenditore o al management. Non sarà un caso, del resto, che nel 2010 anche se la maggior parte delle risorse investite (1.647 milioni di euro, -2% sul 2009), come già negli anni precedenti, è stata indirizzata verso acquisizioni di maggioranza, in forte crescita siano risultati proprio gli interventi finalizzati all’espansione dell’azienda (583 milioni di euro investiti, pari al 24% delle risorse complessive contro il 14% del 2009). A fine 2010 in Italia erano 188 gli operatori monitorati da Aifi, in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente, nell’87% dei casi con base in Italia: il 75% al Nord (con la sola Lombardia sede di ben 113 operatori, seguita a distanza dal Piemonte, con 11 intermediari, e dal Veneto con 8, mentre l’Emilia Romagna si ferma a 6, il Friuli Venezia Giulia a 2 e il Trentino ad un operatore), il 10% al Centro (11 intermediari nel Lazio, 4 in Toscana, 2 in Abruzzi e altrettanti in Umbria) e solo il 2% (2 operatori in Campania, uno in Sicilia, uno in Sardegna) al Sud.

In decisa ripresa, secondo i dati Aifi-Pwc mostrati al convegno di Napoli dello scorso 8 giugno da Walter Ricciotti (consigliere Aifi), la raccolta indipendente, balzata sul mercato domestico dai 530 milioni di euro del 2009 a 1.864 milioni, nuovo record anche rispetto al periodo pre-crisi (quando vennero raccolti 996 milioni nel 2007 e 1.436 milioni nel 2008). Decisamente più prudente resta l’andamento degli investimenti, che nel secondo semestre dello scorso anno hanno toccato quota 163 operazioni (+27,3% rispetto al secondo semestre 2009, +26,3% rispetto ai primi sei mesi del 2010), per un controvalore complessivo di 1.909 milioni (+23,5% sui dodici mesi, quasi il triplo rispetto ai 552 milioni investiti nel primo semestre 2010). Numeri ancora distanti dagli oltre 2,2-2,7 miliardi mediamente investiti tra il secondo semestre del 2008 e il secondo semestre del 2009, peraltro con operazioni che pur tendendo a crescere di numero (da 149 a 202 a semestre) sono rimaste vicine ai livelli attuali, segno di una minore esposizione dei fondi, attualmente, in ciascuna operazione. Un dato quest’ultimo confermato anche dall’esplodere nel 2010 delle operazioni con “taglia” non superiore ai 2 milioni di euro (balzate al 42% del totale degli investimenti effettuati contro il 28% del 2009), cui ha corrisposto un calo del peso percentuale delle operazioni di maggiore dimensione (quelle sopra i 100 milioni di euro, ad esempio, hanno rappresentato il 13% del totale mentre pesavano il 19% ancora un anno prima). Ancora una volta se si va poi a declinare i dati su base regionale si scopre che l’Italia procede a due (o tre) velocità anche in questo campo: se a livello di investimenti nel 2010 si è registrato un testa a testa tra Nord (con 1.188 milioni di euro) e Centro (con 1.186 milioni), al Sud sono rimaste le briciole (solo 60 milioni di euro). La musica non cambia anche guardando al numero di operazioni: l’anno passato sono state solo 4 le regioni italiane a registrare oltre 20 operazioni d’investimento, con la Lombardia (89 operazioni) di gran lunga in testa davanti a Friuli Venezia Giulia (44), Emilia Romagna (29) e Lazio (29), mentre a secco sono rimaste la Val d’Aosta, il Trentino Alto Adige, il Molise, la Basilicata e la Calabria. Eppure le risorse che il settore del private equity potrebbe mettere a disposizione degli imprenditori italiani non sono di poco conto: secondo i dati presentati da Ricciotti nell’incontro napoletano si tratterebbe di almeno 8,1 miliardi di euro, sufficienti a effettuare 2.500 investimenti presso altrettante aziende tricolori. Importo che non considera altri 2,5 miliardi di euro che potrebbero essere investiti da operatori pan-europei, banche e operatori pubblici captive. Oltre 10 miliardi di euro in tutto, che in tempi di rigore fiscale potrebbero rappresentare una linfa vitale per l’economia del Belpaese.

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