Fondi – Prove di dialogo per crescere

L’ingresso dei fondi di private equity per non perdere l’impresa. Si tratta di realtà che danno all’imprenditore un network di conoscenze e competenze che potranno rivelarsi preziose (specie se la stessa deve affrontare un passaggio delicato come un cambio generazionale), ma anche di soggetti in grado di ridurre il senso di solitudine che spesso gli imprenditori avvertono in tutta Italia ma in particolar modo nel Mezzogiorno. Di questo e di altro si è parlato in questi giorni a Napoli nel corso del convegno “Private equity, imprese e professionisti: un dialogo per la crescita” organizzato presso la sede di Piazza dei Martiri dell’Unione Industriali partenopea da Top Legal, Deloitte, lo studio Gianni, Origoni, Grippo & partners e Vertis Sgr, in collaborazione con Aifi, American Chamber of Commerce in Italy, Associazione nazionale per lo studio dei problemi del credito e la stessa Unione Industriali di Napoli. Davanti a una sala affollata di oltre un centinaio tra imprenditori, avvocati e banchieri d’affari, Amedeo Giurazza, socio fondatore e amministratore delegato di Vertis sgr, ha ricordato l’opera di “formazione e informazione” svolta da oltre un decennio sul territorio “per far conoscere il private equity agli imprenditori e ai consulenti”. “Sono particolarmente soddisfatto – ha spiegato – di vedere in sala oltre una ventina di piccoli e medi imprenditori”, fatto finora inconsueto in questo tipo di incontri per “addetti ai lavori” anche perché “l’imprenditore meridionale teme in modo esagerato la perdita del controllo della società: per questo siamo pronti ad assumere anche quote di minoranza”. Il mondo del private equity, del resto, va cambiando pelle in tutta Italia oltre che nel Mezzogiorno: se fino a qualche anno fa la durata delle operazioni, prevalentemente di natura finanziaria e con un grado di leverage elevato, era di circa 3 anni, ora a fronte di operazioni dove l’aspetto industriale sta tornando a prevalere i tempi si sono allungati e spesso il “fidanzamento” tra impresa e fondo di private equity può durare anche 6-7 anni, senza obiettivi prefissati di rendimento minimo (anche se l’Irr medio delle operazioni di private equity è attorno al 20%-25%), quanto semmai una serie di alternative per il “way out” chiare e condivise fin dall’inizio dai partner.

Un mercato, quello del private equity, che secondo Walter Ricciotti, consigliere Aifi, può dirsi ormai maturo al Nord, meno al Sud: “in Italia ci sono 188 operatori di private equity, la gran parte si trova nella Pianura padana, pochissimi al Sud, in Campania sono state realizzate in tutto solo una ventina di operazioni”. A giudicare dall’attenzione con cui i presenti hanno seguito il dibattito e dalle numerose domande giunte ai relatori al termine della giornata (e proseguite in molti casi in colloqui “a quattr’occhi” durante il successivo buffet) per il private equity, superati i postumi della crisi finanziaria 2008-2009, il Mezzogiorno d’Italia potrebbe tornare a rappresentare un’occasione da sfruttare, per far andare definitivamente in soffitta il vecchio (ma purtroppo sinora molte volte veritiero) motto “imprenditore ricco, impresa povera” che ha dimostrato di non saper creare alcun significativo valore aggiunto, se non per una sparuta minoranza. Per riuscirci, tuttavia, i fondi di private equity e i loro advisor secondo Per Marco Gubitosi, partner di Gianni Origoni Grippo & Partners, dovranno dimostrare di possedere una “capacità di interazione con gli altri soggetti coinvolti, una comprensione del procedimento di investimento e una profonda conoscenza delle necessità del cliente”. Il tempo dei sorrisi e delle strette di mano, insomma, è finito anche all’ombra del Vesuvio, dando modo ai professionisti di dimostrare appieno le proprie competenze e il valore aggiunto che può derivare anche alle Pmi dall’aprire il capitale a un investitore professionista.

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