L’orizzonte di breve termine è il primo errore degli investitori

Nel lungo periodo l’indice S&P 500 è cresciuto ad una media del 9%, mentre i fondi comuni hanno generato rendimenti del 7,5%. I risparmiatori che hanno preso posizione tramite fondi comuni hanno ottenuto dei ritorni compresi tra il 5,5% e il 6%; “questi sono i dati statistici più deprimenti di tutta la mia carriera nell’asset management, ciò sarebbe accettabile nel caso in cui l’unico modo per ottenere questi profitti fosse una gestione attiva”, spiega Michael Mauboussin, Chief Investment Strategist di Legg Mason Capital Management e professore alla Columbia Business School.

La differenza tra il 9% ed il 7,5% è costituito essenzialmente dalle commissioni che vanno ai gestori e dalle altre spese legate all’industria del risparmio gestito. “Il dato peggiore tuttavia è quello relativo al ritorno degli investitori, che in genere è il 60% o 70% del guadagno realizzato dal mercato; il motivo di questa differenza è legato agli errori nel timing”, ovvero ad un cattivo tempismo nella movimentazione del portafoglio. La maggior parte delle persone tende a comprare titoli che hanno sovraperformato e a vendere quelli che hanno reso meno, “ma in questo modo si perdono i successivi rialzi e si subiscono le drastiche inversioni negative per le azioni che hanno avuto una performance molto buona”, ovvero si tende a comprare sui massimi per vendere sui minimi, esattamente l’opposto di quello che si dovrebbe fare.

Non solo i risparmiatori, ma “anche gli investitori istituzionali sono succubi di questo tipo di meccanismo”. La perdita legata alle opportunità non colte da parte degli investitori istituzionali “ammonta a circa 170 miliardi di dollari, che sebbene vadano rapportati a investimenti complessivi di qualche migliaia di miliardi, si tratta comunque di una cifra significativa”. Più in dettaglio “un terzo di questa mancata performance è imputabile alla scelta dei titoli e per due terzi alla selezione dei gestori”. L’etica americana e più in generale quella occidentale “vuole che il duro lavoro produca risultati migliori, quindi un maggiore sforzo nella gestione degli investimenti dovrebbe dare maggiore risultati”. Nel mondo dell’investimento, tuttavia, ciò non è necessariamente vero. “I gestori dei fondi comuni e dei patrimoni delle fondazioni si convincono che muovere il denaro sia un elemento cruciale per migliorare la performance e lo fanno, ma con un tempismo sbagliato”.

In generale il nostro orizzonte temporale tende ad essere troppo breve e prevale la convinzione che un’attività intensa equivalga ad ottenere risultati migliori, “un’equazione che nel mondo degli investimenti semplicemente non funziona”. Nella nostra società vi è la convinzione che se ad una persona qualcosa è andata bene in passato continuerà ad andare bene in futuro quindi, tornando sulla scelta dei gestori, coloro che registrano i risultati peggiori vengono licenziati, anche se nel periodo successivo potrebbero battere il mercato, o comunque fare molto meglio rispetto al passato. “Mi piacciono le metafore sportive; la concezione che, dopo aver attraversato un periodo buono, si abbia maggiore possibilità di fare altrettanto bene nelle successive partite, è molto popolare tra tutti i fan sportivi e sicuramente tra gli atleti”. Gli statistici dibattono da diversi anni su questo fenomeno, “ma non sono riusciti ad individuare delle prove schiaccianti che lo confermino o meno, il problema è che noi ci comportiamo come se questa regola fosse valida”.

I fondi tendono ad assumere gestori che hanno registrato nel periodo precedente delle performance superiori alla media. Quando invece licenziano un gestore “le ragioni possono essere varie, ma in generale la causa principale risiede nella performance inferiore al benchmark”. Tuttavia succede regolarmente che “i gestori licenziati, nei successivi 24 mesi, registrano risultati migliori di quelli appena assunti quindi, se i responsabili dei fondi li avessero tenuti, alla fine avrebbero avuto un risultato migliore”. Quanto sopra esposto va contro la convinzione che “una buona stagione preceda un’altra buona stagione, dato che di solito si va incontro ad un rintracciamento verso i valori mediani”.

Le persone si lasciano guidare dalle proprie emozioni, mentre è più difficile capire perché i manager istituzionali siano portati ad avere una visione temporale di breve termine. “Tipicamente un istituzionale concederà ai propri gestori circa tre anni per produrre risultati, un tempo molto breve”. Tre anni sono un periodo giusto, se visti nell’ottica della carriera personale del Chief Investment Officer (CIO), solitamente il responsabile della gestione dei fondi, ma per moltissime strategie è invece un arco di tempo non sufficiente per ottenere i ritorni attesi.

Sul fatto che l’orizzonte temporale si stia ulteriormente abbreviando le opinioni non sono concordi; “in generale la sensazione è che oggi prevalga, più che nel passato, l’orizzonte di breve periodo, sia nelle aziende che nella gestione degli investimenti”. Andando a ritroso osserviamo come, in ogni decennio, c’è stato un momento in cui si è lamentato il peso di questa tendenza al breve termine, non è quindi un dibattito nuovo”.

Per una corretta gestione della propria ricchezza è importante saper fare un passo indietro e chiedersi che aspetto abbiano il quadro a lungo termine ed i trend strutturali in atto. A quel punto occorre individuare dove si sta rispetto a quei trend di base e tentare di trarne vantaggio. “Anche quando si sceglie un titolo con una valutazione interessante, un prezzo basso può scendere ulteriormente, tuttavia in questo caso spesso il tempo è dalla nostra parte”. La pazienza quindi è l’elemento chiave. “E’ molto difficile avere pazienza oggigiorno, ma è proprio con il passare degli anni che i grandi investitori hanno realizzato la propria ricchezza”, conclude Mauboussin. 

 

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