Decisioni d’investimento, assicurative e previdenziali

Le decisioni finanziarie prese nella vita reale, d’investimento e di sottoscrizione di polizze assicurative, come anche le nostre scelte previdenziali, sono assunte in base sia alla ragione sia alle emozioni. Ma esiste un metodo per misurare la tolleranza al rischio? Questo il tema affrontato in “Decisioni d’investimento, assicurative e previdenziali, tra finanza e psicologia”, pubblicato da Il Mulino, scritto da Barbara Alemanni, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari nell’Università di Genova, Gianni Brighetti, professore associato di Psicologia generale nell’Università di Bologna e Caterina Lucarelli, professore associato di Economia degli intermediari finanziari nell’Università Politecnica delle Marche. Il libro è il frutto di una sperimentazione, nel senso sia culturale, sia tecnico del termine. Una letteratura ormai consolidata ha da tempo reso condiviso che la razionalità e le emozioni concorrano ad influenzare i processi decisionali che implicano incertezza e rischio. Il volume tenta di conciliare le due chiavi di lettura (ragione ed emozioni) partendo da una collaborazione interdisciplinare tra studiosi di finanza e di neuroscienze.

 
Gli autori osservano che la domanda di polizze assicurative “prescinde dal fatto che I’individuo creda, o meno nel settore assicurativo, ma risponde ad un’esigenza specifica del soggetto e alle sue caratteristiche di personalità. I maggiori acquirenti di polizze assicurative sono soggetti più istruiti della media, con famiglie numerose, alto reddito, non opinion leader, geograficamente stabili, amanti del rischio, non attenti ai prezzi, con una bassa autostima, non fedeli ad una specifica marca, e non pesantemente dipendenti dal governo”.
 
Gli investitori, in genere, preferiscono partecipare a scommesse in cui le probabilità dei pay-off sono note con certezza, piuttosto che incerte, ossia si riscontra un atteggiamento generalizzato di avversione all’incertezza; “in questo senso, sono esemplificativi i risultati conseguiti nel lavoro di Eínhort e Hogarth del 1986, che evidenziava come la maggior parte dei soggetti analizzati è avversa all’incertezza (75%), pochi sono amanti dell’incertezza (5%), mentre la quota restante, non trascurabile, è neutrale nei confronti dell’incertezza (20%)”. Peraltro, I’avversione per I’incertezza è più evidente nel dominio dei guadagni, piuttosto che in quelle delle perdite. La differenza sostanziale tra incertezza e rischio risiede nella possibilità di misurare la distribuzione di frequenza delle probabilità degli eventi, che è tipica del rischio, e che è invece assente quando si opera in condizioni di incertezza; in quest’ultimo caso, infatti, le uniche valutazioni possibili circa la probabilità di accadimento degli eventi sono quelle soggettive del decisore.
 
In controtendenza con l’idea comunemente condivisa “il fondo pensione, strumento per cui il decisore dispone di un set incompleto di informazioni, è un tipo di investimento da cui trae più soddisfazione chi ha maggiore tolleranza del rischio, ovvero soggetti pronti a prendere decisioni sulla base di informazioni ridotte e parziali”.
 
Anche negli Stati Uniti, “la normativa ha creato un contesto sfavorevole alle rendite. Negli anni nel sistema pensionistico statunitense si è registrato il progressivo spostamento dalla previdenza pubblica, di tipo distributivo centrata sul vitalizio, che nel settore privato è passata dall’84% della popolazione nel 1979 al 37% nel 2005, a un sistema contributivo, in cui i piani 401(k) rappresentano il veicolo più importante, dove I’opzione della rendita è sottoutilizzata”. La presenza delle rendite derivanti dalla pensione pubblica o da schemi integrativi aziendali può generare un effetto spiazzamento sulla domanda del vitalizio dalla previdenza complementare ed il desiderio di lasciare un eredità sono delle possibili spiegazioni, ma il punto centrale è dovuto al fatto che molti investitori percepiscono le rendite come lotterie e non come assicurazioni. “La possibilità di premorienza è rappresentata mentalmente come una possibile perdita nell’investimento e I’avversione alle perdite spinge ad abbandonare I’opzione”. 
 
Numerosi sondaggi e ricerche empiriche suggeriscono che le persone, non solo in Italia, non sono particolarmente abili nel programmare i propri piani di risparmio, o si astengono dal pianificare per il futuro. “Uno studio condotto nel 1992 su un campione di americani di età superiore a 50 anni, ha scoperto che circa un terzo degli intervistati non ha ancora programmato alcun piano di risparmio, dato sorprendente, se si considera I’età degli intervistati, e che dimostra come gli individui non siano affatto lungimiranti, come ipotizzato nei modelli neoclassici”. La maggior parte delle famiglie americane arriva alla pensione con scarse risorse e un portafoglio debolmente diversificato. “Secondo un sondaggio, condotto dall’Employee Benefit Research Institute nel 2003, meno del 40% delle famiglie americane calcola quanto dovrebbe risparmiare, il 30% non ha alcun risparmio per quando si ritirerà dal lavoro e solo il 20% pensa di avere abbastanza denaro per mantenere un adeguato tenore di vita dopo il pensionamento”.
 
Diverse indagini dimostrano che tra i principali ostacoli ad un adeguato tasso di risparmio non vi è la mancanza di consapevolezza, ma della determinazione ad attenervisi. 
L’introduzione della contribuzione automatica nel piano previdenziale può rappresentare un incentivo per aumentare il risparmio ma presenta anche degli svantaggi. In una grande azienda statunitense ha permesso di aumentare il tasso di partecipazione dei nuovi assunti passa dal 37% all’86%, tuttavia lo status quo bias, porta a dei bassi livelli di contribuzione. L’elevato grado di inerzia si traduce, infatti, nella conservazione dei parametri previsti dall’opzione automatica.
 
Le persone con un’età superiore a 60 anni, vedove/i ed i soggetti con bassi livelli di istruzione si dichiarano avversi al rischio ma tendono a ricercarlo nelle prove di laboratorio condotte dagli autori; “al contrario celibi/nubili e laureati si dichiarano propensi al rischio, ma messi nelle condizioni di assumerlo sviluppano un apprendimento emotivo che li conduce a rifiutare il rischio non remunerato ed a preferire comportamenti di avversione ad esso”.
Il genere femminile dichiara una propensione al rischio finanziario significativamente inferiore, rispetto al genere maschile. “Tuttavia, nell’osservazione delle variabili di tolleranza al rischio non condizionate dalla distorsione dell’auto-valutazione nessuna differenza uomo-donna appare statisticamente significativa”.
 
 
 
 
 

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