Bnp Paribas IP: Jackson Hole fa luce sulle intenzioni della Fed

APPUNTAMENTO A JACKSON HOLE – “In passato, la conferenza di Jackson Hole – che riunisce i rappresentanti delle principali banche mondiali su invito della Federal Reserve di Kansas City – ha rappresentato un palcoscenico per fare annunci importanti. Sinora il presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, si era mostrata poco incline a profittare di Jackson Hole per far trapelare delle indicazioni, tuttavia quest’anno le sue dichiarazioni, assieme a quelle del vice-presidente Fisher, hanno innescato dei movimenti altalenanti sui mercati finanziari, sottolinea Joost van Leenders, chief economist del team Multi asset solutions di Bnp Paribas IP. Ad ogni modo il quadro complessivo dell’economia mondiale non lascia prevedere una fine imminente dell’attuale fase caratterizzata da tassi bassi, e ciò dovrebbe mantenere vivo l’interesse per i titoli azionari rispetto ad altri attivi. Tuttavia, a nostro avviso, vi saranno ancora delle correzioni sui mercati – ne prevediamo una nei prossimi sei mesi – poiché la crescita e l’incremento dei profitti societari restano su livelli modesti e le quotazioni azionarie a livello internazionale paiono lievemente sopravvalutate.

JACKSON HOLE: IN SINTESI – Per van Leenders le previsioni della Yellen sono rimaste sostanzialmente invariate rispetto ai mesi scorsi: l’economia è in crescita e il mercato del lavoro sta migliorando. Inoltre, il presidente della Federal Reserve ha fatto capire che negli ultimi mesi si sono rafforzati gli argomenti a favore di un rialzo dei tassi sui federal funds. Tuttavia i mercati finanziari hanno interpretato le sue parole in senso espansivo: in effetti, quasi la metà delle dichiarazioni della Yellen si riferiva all’incertezza delle prospettive ed alla limitata capacità della Federal Reserve di predire l’evoluzione dei tassi. In altre parole, i mercati hanno registrato un aumento delle probabilità di rialzo dei tassi, ma senza percepire la necessità di un intervento immediato. Tuttavia, quando il vice-presidente Fisher ha affermato che le osservazioni della Yellen erano compatibili con uno o persino due aumenti dei tassi entro fine anno, hanno prevalso toni più restrittivi ed il clima di mercato è cambiato. I listini azionari USA sono scesi chiudendo un’altra settimana in lieve flessione, e i rendimenti delle obbligazioni statunitensi sono saliti. Il rafforzamento del dollaro – e di riflesso l’indebolimento dello yen – ha favorito i listini azionari del Giappone, ma gli altri mercati emergenti hanno incontrato delle difficoltà. In realtà, un giro di vite sui tassi in settembre o in dicembre, non dovrebbe fare grande differenza, tuttavia la prospettiva di due aumenti entro l’anno provocherebbe un adeguamento delle quotazioni sui mercati finanziari.

USA: PROBABILE UN RIALZO DEI TASSI – Al momento, secondo gli operatori di mercato le probabilità di un aumento dei tassi in settembre si attestano al 42%, oltre il doppio rispetto al 20% registrato due settimane fa, rimarca van Leenders. Un giro di vite in dicembre invece riscuote il 65% di probabilità, mentre solo il 17% degli operatori ritiene possibili due aumenti dei tassi entro l’anno. A nostro avviso, l’attuale valutazione del mercato delle probabilità di un rialzo dei tassi in settembre sono abbastanza elevate da consentire alla Federal Reserve di intervenire: in altre parole, un incremento dei tassi è già scontato e i mercati lo accoglierebbero senza troppe turbolenze. Molto dipenderà dai prossimi dati economici che verranno pubblicati, e in particolare dal rapporto sul mercato del lavoro per il mese di agosto. Qualora i dati rivelassero un nuovo aumento dell’occupazione per il terzo mese consecutivo – le stime di Bloomberg puntano su 180.000 nuovi posti di lavoro – la Federal Reserve sarebbe praticamente costretta ad inasprire i tassi a settembre. Infatti, qualora la banca centrale USA dopo aver fatto salire le attese non intervenisse– come ha già fatto a luglio – metterebbe a repentaglio la sua credibilità.

TASSI NEGATIVI: NON PER LA FEDERAL RESERVE – Per quanto riguarda gli strumenti di politica monetaria, la Yellen non ha segnalato alcuna novità a breve. La capacità di pagare gli interessi sulle riserve in eccesso detenute dalle banche presso la Federal Reserve consente alla banca centrale di creare liquidità senza che i tassi di interesse scendano eccessivamente, mentre gli acquisti di attivi e le indicazioni prospettiche relative ai tassi consentono di stimolare l’economia se necessario. Su quest’ultimo punto, a nostro avviso, la Yellen sta facendo buon viso a cattivo gioco, infatti, gli acquisti di attivi e le indicazioni prospettiche sono meno efficaci quando i rendimenti dei Treasury sono bassi, come al momento. Nell’ambito della conferenza, non vi è stato alcun accenno ai tassi d’interesse negativi e, a nostro avviso, ciò mostra la riluttanza della Federal Reserve ad imboccare questa strada: la Yellen in buona sostanza ha lasciato questo tema al governatore della Banca del Giappone Kuroda e a Benoit Coeure, membro del Comitato esecutivo della Bce, aggiunge van Leenders.

GIAPPONE: SI RIDUCONO I MARGINI DI MANOVRA PER LA BANCA CENTRALE – In Giappone, gli ultimi dati relativi ai prezzi al consumo hanno evidenziato la necessità di nuovi interventi: infatti l’inflazione complessiva è scesa al livello più basso degli ultimi tre anni e quella core – al netto dei prodotti alimentari freschi e dell’energia – è scivolata allo 0,3% nel mese di luglio, un dato nettamente inferiore rispetto all’obiettivo del 2% fissato dalla Banca del Giappone. I dati per la città di Tokyo, che comprendono anche il mese di agosto, non hanno mostrato alcun miglioramento con l’inflazione complessiva invariata allo -0,5% e il dato core in calo allo 0,1%. In occasione della riunione dei vertici di settembre, la Banca del Giappone effettuerà una valutazione complessiva della propria politica monetaria e il governatore Kuroda non ha escluso di accentuare i tassi di interesse negativi. Un approfondito riesame delle politiche attuali comporta più di un semplice rafforzamento delle misure in vigore, ma a nostro avviso i margini di manovra della banca centrale paiono limitati, precisa van Leenders.

DATI ECONOMICI CONTRASTANTI – Nel secondo trimestre, il PIL degli Stati Uniti ha registrato una crescita lenta, mentre la stima preliminare degli utili societari nella contabilità nazionale ha fatto segnare un altro trimestre con profitti in calo. Ad eccezione della breve tregua nei primi tre mesi di quest’anno, su base trimestrale i profitti totali sono in calo sin dal primo trimestre del 2015, mentre i margini – ovvero gli utili in percentuale del PIL – si stanno contraendo dal secondo trimestre del 2014. Naturalmente, tale andamento è in parte riconducibile al brusco calo degli utili nel settore energetico, ma i margini sono stati penalizzati anche da una crescita nominale modesta, dal basso incremento della produttività e dai costi salariali più elevati. Il rischio per l’economia potrebbe essere rappresentato da un’eventuale compressione delle retribuzioni e, in effetti, la crescita dei redditi da lavoro dipendente ha rallentato negli ultimi trimestri. Al momento, il comparto dell’edilizia residenziale non rappresenta un rischio per la crescita degli Stati Uniti, sebbene la recente impennata delle vendite di case nuove mostri qualche anomalia, anche perché pare riconducibile a dei ribassi dei prezzi ed è concentrata in alcune aree. Ad ogni modo i tassi ipotecari modesti e la crescita dell’occupazione sostengono il mercato immobiliare e – dato che le vendite restano stabili e l’offerta è in calo – vi potrebbero essere nuovi aumenti dei prezzi. Sempre negli USA, i PMI sono risultati inferiori alle stime, offuscando le speranze di un rilancio della crescita nel secondo semestre dell’anno, anche se gli ordinativi di beni durevoli sono migliorati. Nell’eurozona i PMI hanno tenuto abbastanza bene, e l’indice composito per l’insieme dell’area ha fatto segnare un buon incremento sia nel settore manifatturiero che in quello dei servizi. Tuttavia, in Germania il PMI composito è sceso a causa di un peggioramento nei servizi e – dato ancor più significativo – l’indice Ifo ha accusato la flessione più marcata degli ultimi quattro anni. Tale andamento potrebbe essere riconducibile al voto sul Brexit, che tuttavia, secondo i nostri esperti dovrebbe avere effetti modesti sull’insieme dell’economia dell’eurozona. Il peggioramento della fiducia delle imprese in Italia potrebbe essere interpretato allo stesso modo, aggiunge van Leenders.

SOTTOPESO NEL COMPARTO AZIONARIO: UNA POSIZIONE COPERTA – Il sottopeso nel comparto azionario dei paesi avanzati rispetto alla posizione della liquidità non è stato modificato, poiché riteniamo che le azioni siano lievemente sopravvalutate, mentre le prospettive economiche appaiono abbastanza fosche. I rendimenti negativi offerti da molti titoli di Stato dei paesi avanzati stanno sospingendo gli investitori verso strumenti che offrono rendimenti più elevati e rischi maggiori, come obbligazioni societarie, debito dei paesi emergenti e azioni. Tuttavia, secondo i nostri esperti, le prospettive reddituali delle imprese sono sfavorevoli e riteniamo probabili nuove correzioni al ribasso delle stime degli analisti al riguardo. Il sovrappeso nel segmento delle small-cap rispetto alle large-cap USA è da considerare, in parte, come una copertura a fronte del sottopeso complessivo nel comparto azionario, ma riteniamo che le prospettive per le small-cap siano migliorate anche grazie alle operazioni di fusione e acquisizione. Inoltre, deteniamo posizioni sottopesate nel debito emergente in valuta forte rispetto ai titoli di Stato USA. Gli spread hanno continuato a ridursi, ma i nostri analisti ritengono che azioni e obbligazioni dei paesi emergenti stanno scontando una ripresa più rapida rispetto alle probabilità reali e – a tale riguardo – il gestore ha assunto una posizione sottopesata anche nel comparto delle materie prime, spiega il chief economist.

COMPARTO OBBLIGAZIONARIO: TREASURY E TITOLI INDICIZZATI ALL’INFLAZIONE – Nel segmento dei titoli di Stato privilegiamo le emissioni degli Stati Uniti rispetto a quelle della zona euro: in effetti, i rendimenti sono più elevati negli USA e una curva dei tassi più ripida offre rendimenti supplementari. Inoltre, i nostri esperti rilevano ancora dei rischi sia per la crescita economica che per il deterioramento della situazione politica in alcuni Stati periferici dell’area dell’euro. Sempre nel comparto obbligazionario, il gestore punta sui titoli indicizzati all’inflazione dell’eurozona rispetto a quelli che offrono rendimenti nominali: le attese d’inflazione integrate da questa tipologia di titoli sono estremamente basse e, in effetti, riteniamo che il mercato abbia esagerato un po’, con attese troppo basse. Un aumento dell’inflazione complessiva riconducibile a effetti base legati al prezzo dell’energia potrebbe innescare un aumento delle attese al riguardo, conclude van Leenders.

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