Dunbar (Aberdeen Am): “Una moral tax per le società”

Di seguito il commento di Richard Dunbar (nella foto)foto Richard Dunbar (master), senior investment strategist per le Investment Solutions di Aberdeen Am.

Già nel 1776, quando venne pubblicata “La Ricchezza delle nazioni” di Adam Smith, il rischio di fuga del capitale verso giurisdizioni con aliquote fiscali meno onerose era considerato un rischio economico. A distanza di 240 anni, le società globali sono diventate sempre più abili nell’evitare le stesse “vessatorie inquisizioni” da parte delle autorità fiscali.

Detto ciò, dopo tutte le notizie negative che negli ultimi due anni hanno popolato le prime pagine dei giornali su realtà del calibro di Starbucks, Amazon, Facebook e non solo, il 2017 sarà l’anno in cui le società inizieranno a pagare?

Con ogni probabilità, il dibattito sulle imposte societarie continuerà a concentrarsi su due temi principali. Il primo riguarda i paradisi fiscali. Finora i governi non si sono dimostrati particolarmente efficaci nel contenere il ruolo che le Bermuda e le Isole Vergini britanniche rivestono nel mondo. Sebbene sia stato un argomento di discussione centrale durante il G20 di quest’anno, qualunque cambiamento rischia di rimanere bloccato nelle maglie legislative per anni.

È probabile che vi sarà un irrigidimento delle posizioni dei Paesi che necessitano delle entrate fiscali per sostenere le infrastrutture, e che pertanto cercano di essere competitivi in materia fiscale, e dei Paesi che invece cercano di rimuovere tale vantaggio competitivo. Si prenda l’Irlanda, il suo atteggiamento “competitivo” nei confronti delle imposte societarie è stata una fonte costante d’irritazione tra le sue controparti europee. Innegabilmente, però, la politica irlandese si è rivelata un successo, attirando investimenti e lavoro da lontano. Alcuni potrebbero trovare ironico il fatto che la Commissione per la concorrenza dell’Unione europea stia protestando per questa politica. Presumibilmente, i metodi utilizzati dall’Irlanda rappresentano un esempio di concorrenza che potrebbe contribuire ad aprire una via d’uscita dall’attuale torpore economico paneuropeo. E dato che l’Irlanda non può permettersi facilmente di abbandonare il suo regime fiscale morbido sulle imprese, probabilmente si assisterà a molta retorica da parte dell’Europa e a un rifiuto a cedere degli irlandesi.

Dunque il taglio delle imposte societarie in corso potrebbe essere altresì una strada per stimolare l’economia britannica del post-Brexit? Recentemente, l’approccio del governo britannico verso le tasse è stato sfaccettato. Se da un lato sta gradualmente continuando a tagliare l’aliquota, nel tentativo di stimolare le aziende a insediarsi nel Paese e a investirvi una volta presenti, dall’altro è stato all’avanguardia sul fronte dei ricorsi nei confronti si società che pagano imposte ridotte (o non ne pagano affatto). Qualunque pronunciamento in materia sarà caratterizzato da questa ricerca di un equilibro tra la volontà di essere competitivi e di procedere a una redistribuzione equa di imposte dalle società.

A inizio anno nel Regno Unito i riflettori si sono accessi su Starbucks dopo la notizia secondo cui, nonostante i milioni di caffelatte comprati dai britannici in cerca di ristoro nelle sue numerosissime caffetterie, la società non è riuscita a venderne un volume sufficiente per essere soggetta al pagamento di alcuna imposta. Com’era prevedibile, una pratica commerciale scaltra (ma legale) come questa tende a generare ben poca simpatia tra il grande pubblico. Sebbene il governo britannico abbia manifestato l’intenzione di porre un freno a questa attività fiscale creativa, resta ancora da vedere se riuscirà a passare ai fatti.

Tuttavia, alla luce delle recenti elezioni, il Paese che potrebbe registrare i maggiori rivolgimenti fiscali nel 2017 sono gli Stati Uniti. Contrariamente a quanto si è portati a credere, gli Usa hanno una delle aliquote fiscali societarie più alte al mondo, pari a circa il 40%, inferiore soltanto agli Emirati Arabi Uniti. Nonostante gli USA siano il Paese di origine del professor Laffer e della sua curva, finora nessun politico americano ha voluto testare la sua teoria secondo cui la riduzione dell’aliquota fiscale potrebbe effettivamente determinare un aumento delle entrate.

Non stupisce dunque che attualmente le società americane tengano un ammontare pari a circa 1.200 miliardi di dollari offshore. Gli amministratori delle società hanno degli obblighi giuridici nei confronti dei loro azionisti e sembra che finora la maggior parte di essi non abbia ritenuto che fra gli obblighi figurasse il versamento di circa metà di questo denaro al governo degli Stati Uniti. Tuttavia, se potessero invece essere indotti, attraverso il sistema fiscale, a investire tale patrimonio sotto forma di spese in conto capitale, ciò potrebbe dare un vero e proprio impulso all’economia statunitense. Le dichiarazioni finora rilasciate dal neo-eletto presidente Trump suggerirebbero che una tale revisione radicale del sistema d’imposta sulle società degli Stati Uniti sia probabile. Il che avrà sicuramente implicazioni significative per l’economia USA – ma ne avrà altresì per quelle economie verso cui il denaro veniva altrimenti destinato.

Sembra probabile che l’approccio dei governi preveda un mix: presumibilmente, le modifiche alla legislazione incoraggeranno le società a portare una quota crescente di entrate all’interno del sistema fiscale, e, al contempo, i proprietari delle società giudicate troppo agevolate a livello fiscale verranno stigmatizzati.

Il clima nel Regno Unito e in Europa (forse a eccezione dell’Irlanda) non promette altri tagli alle imposte sulle società, pertanto è probabile che l’aliquota si stabilizzi e l’importo versato aumenti. Certamente assisteremo ad altri casi come quello di Starbucks e company, in cui l’imposizione applicata non verrà più giudicata “equa”.

Si tratta di un argomento complesso, che presenta anche un aspetto morale. Al dibattito ha contribuito perfino una figura del calibro di Papa Francesco. Anche l’Arcivescovo di Canterbury, capo della Chiesa anglicana, si è pronunciato molto sul tema, indicando come “buona” un’economia che rispetti tre criteri: equità, generosità e sostenibilità. Sospetto che l’eventuale applicazione di questi parametri al sistema fiscale implicherebbe un’aliquota d’imposta maggiore (o almeno un versamento superiore) per le società negli anni a venire.

Nel mondo occidentale, i governi soffrono per mancanza di denaro, mentre le aziende no. Nonostante l’aria di abbassamento delle imposte societarie che tira oggi negli Usa, questa combinazione si è rivelata storicamente troppo allettante perché i politici non la tenessero in considerazione e un dibattito sempre più improntato alla moralità non è di buon auspicio per le società. Infatti, un aumento dell’imposizione fiscale sulle società comporta minori ricavi, che a sua volta significano (a parità di condizioni) minori quotazioni azionarie. Come si sa, tutto ha un prezzo.

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