Il private banking punta al passato per crescere in futuro

«Il questionario è stato somministrato da febbraio a marzo 2008 a tutti i maggiori player italiani (e non) attivi nel private banking” spiega a HEDGE, l’avvocato Guido Giommi, coordinatore della ricerca e direttore responsabile della rivista Family Office, «l’indagine non si è limitata alle sole strutture private ma ha coinvolto anche family office e wealth manager».

Un primo risultato dello studio, è stato quello di suddividere il mercato private in due grandi fasce distinte, «strutture dedicate ai super ricchi, come family office e wealth manager, che hanno come soglia di accesso 2 milioni di euro a cui si affianca un secondo mercato, contraddistinto da una clientela “retail” che dispone di circa 500.000 euro».

Come sempre accade in queste indagini, il campione è rappresentativo solo di una parte dell’industria (30% su un patrimonio totale di 870 miliardi di euro) ma sufficiente per trarre alcune conclusioni sui servizi e le professionalità offerte alla clientela di fascia alta. «Il quadro che ne emerge è impietoso e nitidamente vi si può osservare una classe dirigente ripiegata su stessa tesa prevalentemente a proteggere ciò che ha conseguito nel passato senza più né speme né gioia nell’aspettar il domani» con questa licenza poetica, Marco Arcari (docente all’European School of Economics di Buckingam di Londra che ha scritto la prefazione dello studio) tratteggia il private banking nel nostro paese. D’altra parte mai come oggi un alibi all’industria viene fornito dal grande clima di incertezza che regna nelle banche e nelle istituzioni finanziarie di tutto il mondo, spesso raffigurate come i moderni templi del potere.

 
“Giocare in difesa”

«Il dato che più ci ha sorpreso nell’indagine è la sensazione di insicurezza che regna tra i vari player, insicurezza testimoniata dall’elevata percentuale di chi non ha saputo fornire indicazioni sul futuro dell’industria» spiega Giommi. 
 
L’indagine, infatti, ha chiesto alle varie strutture private di stilare una classifica dei servizi strategici per i prossimi 12 mesi: tra le diverse opzioni suggerite, il campione ha messo al primo posto la gestione personalizzata del patrimonio finanziario mentre al secondo posto troviamo gli indecisi. 
Come dire che per il prossimo anno la strategia di crescita di chi fa gestione patrimoniale è quella di offrire gestione patrimoniale, un servizio che è nato con il private banking ma che non aggiunge nulla di nuovo al presente e che prefigura un atteggiamento abbastanza conservativo per il futuro strategico di queste strutture.

Scavando più in profondità si scopre che tra i servizi più strettamente legati alla conservazione del patrimonio emergono ai primissimi posti il trust, le attività fiduciarie e servizi assicurativi, e gli investimenti alternativi. Anche qui nulla di nuovo. «Anche in questo caso l’aspetto significativo è che tutte le strutture di private banking affermano di offrire questi servizi, seguiti solo dalla gestione del passaggio generazionale» continua Giommi.
 

Lo studio inoltre sottolinea come l’attenzione dell’operatore finanziario è ancora una volta concentrata a strutturare operazioni che mirano all’allontanamento del patrimonio da chi lo ha creato, al fine di proteggere il patrimonio stesso, sottraendolo nel contempo a utilizzi di tipo produttivo ma anche edonistici e di consumo.
 
In questo senso, interessante notate come i servizi quali art advisory e filantropia siano scarsamente presenti nelle strutture private e anche il futuro sembra riservare brutte sorprese per filantropi e mercanti d’arte.  «Il 63% degli intervistati dice di offrire il servizio di art advisory – spiega Giommi – ma tra i servizi strategici dei prossimi 12 mesi l’arte è agli ultimissimi posti». 
 
Anche sul piano filantropico gli italiani non sembrano particolarmente attivi, «in questo caso solo il 32% dei private dichiara di offrire questo servizio e nessuno sembra voglia incrementarlo nel prossimo futuro. 
 
Questo aspetto – chiarisce l’avvocato Giommi – si inserisce in un quadro europeo dove la filantropia ha un’importanza residuale se paragonata a Stati uniti e Asia. In Europa solo il 6% dei ricchi richiede servizi filantropici mentre in Nord America e Asia la percentuale è più del doppio». Unico alibi in questo caso, l’assenza di un cultura filantropica, la mancanza di incentivi fiscali e normativi.
 
Proprio la cultura nei sui vari aspetti è uno dei temi che dovrebbero essere condivisi tra i vari clienti private: «suggeriamo alle strutture di incentivare la pratica del mentoring: tutti quei servizi di educazione in senso lato, dedicati alle imprese e ai figli degli imprenditori» si legge nel report dell’indagine. 
Una sorta di condivisione della cultura tra i diversi soggetti che può trovare nelle università e in altri luoghi di diffusione della cultura, un momento di incontro naturale, una pratica molto utilizzata negli USA e che ha dimostrato di ottenere ottimi risultati nella gestione del passaggio generazionale. 
Il private banker diventa in questi casi un “commercialista” per l’impresa, un consigliere e colui che può dare suggerimenti multidisciplinari.
 
Quali proposte per il futuro?

L’indagine, infine, cerca di trarre alcune conclusioni suggerendo anche possibili linee di intervento soprattutto verso quei servizi prettamente finanziari (hedge fund, corporate finance e consulenza finanziaria): «noi non proponiamo su cosa puntare, quello che sottolineiamo, dal punto di vista dei servizi finanziari, è di incentivare lo sviluppo del corporate finance anche attraverso operazioni legate a Basilea 2 o di ristrutturazione attraverso il private equity» spiega Giommi. 
 
Proprio il private equity potrebbe rientrare nei servizi di family business come soluzione per risolvere le problematiche legate al passaggio generazionale, settori molto trasversali che hanno diversi effetti.
L’avvocato Giommi sottolinea infine come nonostante tra i clienti delle strutture private ci siano molti imprenditori, i servizi strettamente dedicati all’azienda non risultano tra quelli più importanti o su cui puntano le strutture di private banking, «in definitiva, il family business è ancora uno dei servizi meno gettonati, e alla fine si punta ancora sulla finanza». 

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