Guadagni? “Insha’Allah”

di Luigi Santovito

  …c’è comunque una finanza a noi lontana che non solo ha visto passare il violento tsunami dei mutui subprime senza sporcarsi, ma che addirittura cresce, si consolida e attrae investitori da tutto il mondo. In una recente intervista, rilasciata dall’agenzia Reuters, il governatore della banca centrale del Barhain Rasheed Al Maraj, ha ribadito durante il summit dedicato alla finanza islamica organizzato a Manama, la forza di crescita degli investimenti ispirati al Corano con stime di un giro di affari che nel 2010 toccherà il trilione di dollari e ritmi di crescita del 15% annuo.
Una finanza non basata sul debito come quelle occidentali e di matrice anglosassone, ma su business tradizionali e che mirano soprattutto alla centralità dell’individuo, in questo caso investitore musulmano attento a considerare solo tutto ciò che è “halal”, cioè permesso in base alle leggi coraniche. Naturalmente anche per la finanza islamica il denaro ha un costo, solo che la religione vieta una determinazione a priori della remunerazione dello stesso e stabilisce che ai proprietari del capitale vada una quota del denaro prodotto dal suo impiego, percentuale che non si può conoscere in anticipo.
La finanza islamica applica, similarmente alla finanza di stampo etico, criteri di esclusione legati agli screening socio-ambientali, ad esempio non vengono presi in considerazione investimenti nei settori che riguardano la produzione di alcool, gioco d’azzardo, armamenti, pornografia e tabacco ritenuti “haram”. Ciò determina che la finanza islamica rimane lontana e allo stesso tempo condanna le politiche degli hedge fund e dei fondi di private equity colpevoli di manipolare denaro verso investimenti ad alto rischio e alto reddito. Questi principi di fondo rendono la finanza islamica una finanza sociale dove ogni cittadino fa parte del sistema e dove ogni investimento è correlato a qualcosa di tangibile, ad esempio si possono citare le sukuk, le obbligazioni islamiche, che devono essere sempre legate a investimenti reali, come la costruzione di un’autostrada pedaggio, una diga, edilizia, e mai destinate a scopi puramente speculativi.
Con l’avvento di questi principi ne deriva la visione di una finanza di carattere associativo che non privilegia i possessori di capitali o di beni suscettibili di essere ipotecati, ma l’imprenditoria dinamica anche se carente di fondi. Il sistema finanziario islamico infatti si fonda su due principi fondamentali di finanza associativa: la “mudarab” (accomandita) e la “musharaka” (associazione) e su di un terzo la “muharaba” (dove la banca svolge il ruolo di intermediario commerciale comprando le merci necessarie ai suoi clienti e realizzando un profitto rivendendogliele). La politica di remunerazione dei depositi bancari ad esempio non segue la logica delle banche classiche occidentali, ma è basata sul principio della spartizione delle perdite e dei profitti: i conti di risparmio vengono remunerati in funzione degli utili fatti dall’istituto e i conti di investimento in base al profitto generato dalle iniziative sostenute dalla banca nel periodo.
Una leva per spingere questi prodotti è di sicuro il marketing che non solo deve informare il consumatore che il prodotto e il processo sono halal, ma ha anche il compito di predisporre modalità di comunicazione pubblicitaria rispettose tanto della religione quanto delle tradizioni dei diversi Paesi. Il mondo islamico non significa solo finanza, ma coinvolge tutti i settori trainanti dell’economia come: abbigliamento, generi alimentari, cosmetica, editoria, turismo con la consapevolezza di una certificazione religiosa inscindibile come hanno capito da tempo colossi come Tesco, Carrefour, Sainsbury’s, Nestlè, Harrod’s che cavalcano un mercato con trend di crescita a due cifre. A dimostrazione della crescita esponenziale del mondo islamico basti considerare che le istituzioni finanziarie islamiche hanno un peso di circa 230 miliardi di dollari, quaranta volte di più di quanto ne avessero nel 1982. La maggior parte delle grandi istituzioni finanziare occidentali, sul modello Citibank, che nel 1996 ha aperto una filiale in Bahrein, sono ormai impegnate in questo tipo di attività sotto forma di filiali, di “sportelli islamici” o prodotti destinati alla clientela musulmana. Simbolo dell’integrazione della finanza islamica nell’economia globale è l’indice creato a Wall Street, denominato “Dow Jones Islamic Index”.
Delle sfide attendono la finanza islamica nei prossimi decenni: dal punto di vista della gestione del credito, si fa notare come i meccanismi della profit sharing finance inducono la banca ad un’attenta selezione dei progetti e un costante monitoraggio delle strategie. La banca fa sua l’idea imprenditoriale e ne segue lo sviluppo (nel caso della full equity financing, il banchiere, addirittura, siede nel CdA della società prenditrice di fondi). Le sfide riguardano soprattutto una regolamentazione internazionale di questi istituti di credito, il fatto che poi si rifiutino operazioni basate sull’interesse esclude le banche dall’operatività sul mercato dei depositi interbancari limitandone lo sviluppo, la distinzione tra i concetti di “commissione” e “interesse” che sembra voler raggirare i principi coranici e ultima, ma non meno importante, formare professionisti in grado di soddisfare i bisogni di una clientela per cosi dire più “scrupolosa”.

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