Aim, poche vittorie. Tanti dubbi

Partiamo da una certezza: le uniche tre quotazioni dall’inizio del 2010 sono avvenute sull’Aim, il mercato di Borsa Italiana dedicato alle pmi che in questi giorni compie il suo primo anno di attività. Il numero può sembrare esiguo, ma con i tempi che corrono per molti operatori si tratta di un quasi miracolo: di certo, le difficoltà della moneta unica e la volatilità dei mercati non spingono a buttarsi sul mercato, ma tempi celeri (soprattutto prevedibili) e requisiti di flottante piuttosto bassi (al 10%) hanno permesso di vincere le paure di società e operatori. Un punto a favore della fusione con l’Lse, dunque, che tra i suoi corollari ha portato alla duplicazione, in Italia, dell’Aim inglese. Eppure, a detta di investitori e Nomad (i soggetti che accompagnano la quotazione in borsa delle società), quello che in tempi di crisi può apparire come un elemento di appeal (il flottante basso), a regime è il sintomo di un problema di natura strutturale: la tradizionale reticenza degli investitori istituzionali a investire nelle Pmi, perché poco liquide. A questo si aggiungono i limiti sugli investimenti nei mercati non regolamentati imposti a molti
stakeholders. Un mix esplosivo che tiene alla larga fondi e compagnie assicurative e che alla lunga potrebbe mettere in discussione l’utilità del nuovo mercato. Non a caso tra gli operatori si fa strada l’idea che se dovesse continuare con questi ritmi, l’Aim potrebbe essere accorpato a quello inglese, con buona pace del sogno di una “pool” per le small-mid cap del Mediterraneo, da contrapporre a quella già esistente al Nord. Per il momento si tratta di fantafinanza, ma di sicuro i prossimi due anni faranno da banco di prova, con l’auspicio di evitare all’Aim, che pure a differenza del Mac è una piattaforma che funziona, la fine che ha fatto il suo predecessore. Ma veniamo al punto: i fondi italiani, che storicamente rappresentano la metà degli investitori di Pmi, hanno un tetto del 10% sugli investimenti in mercati non regolamentati. Una recente disposizione di Bankitalia, poi, impone di “contabilizzare” i titoli poco liquidi (anche se scambiati sulle piazze regolamentate) all’interno di quel 10%. Di fatto, quindi, all’Aim non resta che una percentuale molto bassa (che di fatto si aggira attorno al 2% di media) all’interno dei portafogli dei fondi, già “intasati” dalle azioni delle pmi presenti in altri segmenti di mercato. Anche per gli assicurativi si pone un problema di limiti: “Per loro – spiega Geoffrey Jones, senior consultant di Tower Watson – l’investimento azionario non può superare il 35% ma di fatto, alla fine del 2009, si fermava al 6%. Quello negli investimenti alternativi ha invece un tetto del 5 %. Lo scorso anno però gli investimenti non hanno superato lo 0,3%”. A tutto questo si aggiunge il problema della mancanza di liquidità: da questi titoli è difficile uscire perché gli scambi sono bassi: “le piccole e medie imprese italiane operano sovente in nicchie di mercato delle quali gli investitori hanno una scarsa conoscenza – spiega  Alberto Chiandetti, portfolio manager di Fidelity International, tra le poche sgr specializzate in Pmi – mentre la minore liquidità di alcuni titoli implica necessariamente un orizzonte temporale d’investitore più lungo, che può essere di anni”. Così, in questi mesi c’è chi ha rinunciato alla quotazione perché non è riuscito a trovare cinque investitori istituzionali così come richiesto da Borsa (con ciascuno una quota del 2%), mentre sono numerose le società che stanno alla finestra, nell’attesa di tempi migliori. Il destino dell’Aim si inserisce però all’interno di manovre ben più grandi, che riguardano i futuri assetti del gruppo Lse. I rumors secondo cui il primo azionista, Borse Dubai Limited (al 20,6%) sarebbe intenzionato a vendere la sua quota non sono mai stati smentiti. Gli azionisti italiani intanto stanno a guardare e molto difficilmente, secondo quanto raccolto da Soldi, subentreranno al socio arabo.
L’articolo completo lo puoi trovare su Soldi,
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