Cosa bisogna sistemare per evitare i fallimenti bancari?

Michael Mauboussin, Chief Investment Strategist di Legg Mason Capital Management, nel suo ultimo report, riflette sulle modifiche da apportare al sistema finanziario, per limitare i rischi dei fallimenti bancari.
Il rischio sistemico rientra nel bene pubblico, tutti vogliono che i mercati siano affidabili e stabili ma nessuno vuole sostenere i costi della gestione del rischio. Se il denominatore comune di tutte le crisi è la natura umana, è logico e ragionevole che la regolamentazione prenda in considerazione anche gli incentivi, l’interazione e i sistemi complessi che l’uomo crea.
 
La prima importante questione che la regolamentazione deve affrontare è quella dei separati ruoli degli agent, coloro che prendono le decisioni economico-finanziarie, e dei principal, chi con queste decisioni deve convivere, in genere gli investitori o gli stakeholder. Un esempio evidente è offerto dal cambiamento della struttura proprietaria avvenuto a Wall Street, da partnership private a società quotate in borsa. Fino a qualche decennio fa erano prevalse le società private, poi eclissate da una struttura a corporation quotata in borsa. Le partnership private erano molto attente nell’uso del proprio capitale, tendevano a tollerare un livello di leva più basso di quello comune oggigiorno e per guadagnare si attenevano a strategie note e sperimentate, con i partner vigilavano affinché il denaro fosse investito con prudenza. Queste partnership potevano anche fallire, ma raramente comportavano un rischio sistemico, nonostante la nota eccezione del Long-Term Capital Management.
 
Gli incentivi offerti ai dipendenti di una società quotata sono differenti da quelli che propone una piccola partnership. John Gutfreund, ex CEO di Salomon Brothers, lo riassume così: “gli azionisti partecipano sempre quando la società perde ma non necessariamente quando guadagna: tutto qui“, ed aggiunge che “si tratta di DDA. Denaro Degli Altri“, tuttavia il recente fiorire di società boutique a Wall Street segna un passo verso una soluzione della questione.
In assoluto uno dei migliori esempi del problema principal-agent è il comportamento delle agenzie di rating del credito, note anche come “Organizzazioni di Rating Statistico Riconosciute a Livello Nazionale” (NRSRO). Questa denominazione è importante perché la Sec permette alle società finanziarie di basarsi sui rating delle NRSRO per decidere quali clienti assolvono i requisiti normativi. Il problema è che le agenzie di rating incassavano dalle emittenti parcelle cospicue per assegnare dei rating a una serie di strumenti finanziari relativamente nuovi. Non avendo a disposizione dei modelli di valutazione adeguati, le NRSRO sono state larghe nell’assegnare il merito di credito, ma l’errore è imputabile in primo luogo ad incentivi distorti, uniti ad una scarsa supervisione.
Il secondo elemento importante che i regolatori devono affrontare è come eliminare il problema degli istituti che sono troppo grandi per essere lasciati fallire, al quale si è aggiunto negli ultimi decenni un trend verso sistemi e reti sempre più estese e complesse, una tendenza favorita dai benefici apportati dalle economie di scala e dal progresso tecnologico. Duncan Watts, ricercatore scientifico presso Yahoo! Research, fa notare che se da una parte queste reti ci permettono di diffondere più rapidamente le soluzioni, dall’altra aprono i canali per una ripercussione a cascata dei problemi, come avvenuto per i mutui subprime. In un libro successivo che tratta dei sistemi soggetti a incidenti normali, il professore di sociologia presso l’Università di Yale Charles Perrow suggerisce una soluzione relativamente semplice: “ridurre le concentrazioni che ci rendono vulnerabili“. Questa strada necessiterebbe di un regolatore, la Fed sarebbe il candidato più ovvio, che valutasse periodicamente l’impatto dell’eventuale collasso di una società sul resto del sistema finanziario. Una società ritenuta dai regolatori “troppo grossa per essere lasciata fallire” dovrebbe ristrutturarsi ridimensionandosi.
 
Questa ricetta però parte dall’assunto che vi siano dei metodi oggettivi per valutare il rischio posto dalle società, ed inoltre la stessa definizione “troppo grossa per essere lasciata fallire” è fuorviante. Più corretto sarebbe definirle “troppo interconnesse per lasciarle fallire“, perché l’interconnessione non sempre dipende dalle dimensioni. Inoltre, la preoccupazione non è tanto il loro fallimento, AIG, Bear Stearns, Wachovia e Lehman Brothers sono tutte fallite dal punto di vista degli azionisti, ma quanto questo metta a rischio il resto del sistema finanziario. I regolatori dovrebbero quindi monitorare l’interconnessione tra gli istituti, il che è molto più difficile da misurare, rispetto alle sole dimensioni di una società.
 
 
Un ulteriore elemento è che il sistema finanziario è globale, esistono delle economie di scala e le banche non statunitensi potrebbero espandersi per riempire le nicchie lasciate vuote dal ridimensionamento delle società americane. In questo caso, queste ultime finirebbero per ritrovarsi meno competitive, ma esposte sempre al rischio sistemico, occorre quindi che i regolatori negli Usa monitorino i cambiamenti nel sistema globale.
Per contenere la volatilità i regolatori possono mettere in atto delle misure anticicliche, come oggi proposte del governo americano. Si possono rendere più severi i requisiti di margini e di capitale quando è ancora in corso un periodo positivo dell’economia, allentandoli viceversa nei momenti più difficili, ma le pressioni politiche ed economiche, così come la corretta lettura della congiuntura, non rendono facile la realizzazione di queste iniziative.
 

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