Rendimenti finanziari e strategie d’investimento

Le differenze tra il sistema finanziario europeo e quello statunitense possono essere analizzate in termini di percorso formativo degli addetti al settore; strettamente accademico e teorico quello del vecchio continente, più flessibile e sperimentale quello americano.
Non stupisce quindi che le pubblicazioni di autori statunitensi riescano solitamente ad avere un ampio respiro, rivolgendosi ad un pubblico più vasto, come è il caso di Stocks for the Long Run di Jeremy J. Siegel, la cui quarta edizione è da qualche mese pubblicata in Italia da Il Mulino.

Alleggerendo la trattazione con citazioni da giornali dell’epoca, interventi fatti nel corso di conferenze e numerosi aneddoti, Siegel analizza, a partire dal diciannovesimo secolo, quelli che sono stati i rendimenti ed i cambiamenti dei mercati finanziari, in primo luogo quelli statunitensi, fornendo a supporto della spiegazione teorica numerosi dati di grande interesse.

L’autore dimostra che, sia nel breve che nel lungo periodo, le azioni siano state l’unica forma di investimento in grado di aumentare la ricchezza degli investitori, specificando come gli elementi che hanno favorito la rivalutazione dei titoli rappresentativi del capitale di rischio non verranno meno nel corso dei prossimi anni.

Dal 1802 al 2006, “sul mercato azionario statunitense il potere d’acquisto è raddoppiato, in media, ogni dieci anni”, il rendimento reale è stato del “7% annuo dal 1802 al 1870, del 6,6% dal 1871 al 1925, del 6,8% dal 1926 al 2006”, un dato che evidenzia una “straordinaria stabilità”, a differenza di quanto fatto registrate dal comparto del reddito fisso governativo USA.
I titoli obbligazionari a lungo termine hanno ottenuto, nei medesimi periodi, un rendimento reale rispettivamente del 4,8%, 3,7% e 2,4%, mentre quelli a breve termine del 5,1%, 3,2% e 0,7%”. L’inflazione, nei tre periodi presi in esame, “si è attestata rispettivamente allo 0,1%, 0,6% e 3,1%”.

Dal 1900 al 2006 “in Italia il rendimento reale delle azioni si è fermato poco sopra il 2%, mentre sono stati negativi quelli dei titoli di stato a lungo, attorno al -2%, e breve termine, vicino al -4%”.

Il professore della Wharton School (Università della Pennsylvania) non crede che le strategie di gestione attiva siano in grado di battere il mercato nel lungo periodo; “dal gennaio 1971 al dicembre 2006, il rendimento medio dei fondi comuni azionari è stato del 10,49% annuo, vale a dire 1,06 punti percentuali meno del Wilshire 5000 e 1,04 meno dello S&P 500”, senza considerare le commissioni di acquisto e vendita, “che determinano un’ulteriore riduzione dei rendimenti reali”.

Il volume, centrato principalmente sui mercati statunitensi, tratta anche di altre aree geografiche, come il caso del Giappone, unica nazione al mondo nel quale l’esperienza empirica non ha premiato l’investimento azionario; “negli anni Settanta e Ottanta i rendimenti in dollari delle azioni giapponesi sono stati del 10% annuo superiori a quelli degli Usa e maggiori di quelli di qualunque altro paese industrializzato”. Grazie ai forti rialzi il Giappone ospitava un mercato azionario che per dimensioni “superava quelli statunitensi ed europeo messi insieme”. Il Nikkei sfondò i 39.000 punti nel dicembre 1989, per poi calare a 14.000 nell’agosto 1992 e scendere sotto gli 8.000 nel 2007.

La crescita delle economie emergenti non viene messa in dubbio, tuttavia i rendimenti dei mercati azionari non dovrebbero superare quelli dei paesi occidentali; l’esperienza empirica mostra come “tra crescita del Pil e risultati azionari vi sia una correlazione negativa”.
Tra il 2025 ed il 2030, a seconda delle proiezioni, “la Cina diventerà la maggiore economia mondiale e nel 2050 realizzerà una quota di produzione pari alla somma di Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone; l’India seguirà da vicino la Cina ed insieme produrranno più di un terzo dell’output globale complessivo”, un dato che sebbene colpisca i più, non si discosta da quanto le due economie furono in grado di realizzare “nel diciassettesimo e diciottesimo secolo”.

A differenza di quanto si è soliti immaginare, l’oro è stato il grande sconfitto degli ultimi due secoli avendo avuto, in termini reali, una rivalutazione prossima allo zero; “1 dollaro investito nel 1802 in oro avrebbe raggiunto 1,95 dollari nel 2006, rispetto a 755.163 dollari che si sarebbe ottenuti dalle azioni Usa e dei 1.083 dollari dei titoli di stato statunitensi a lungo termine”.
 

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!