Il modo migliore di scegliere l’a.d.

Il recente cambio di timoniere all’interno del Monte dei Paschi è un’icastica istantanea della situazione delle banche italiane. O almeno di come siano interpretate dalla stampa e dal mercato le nomine di nuovi amministratori delegati di banche, almeno di quelle quotate. Non è qui il caso di dare conto di polemiche sindacali o locali, non ne valgono la pena. Il punto critico è tutt’altro e può essere ritenuto un paradigma della condizione di questo Paese. In teoria, sarebbe una buona regola scegliere un amministratore delegato o direttore generale in base alle sue capacità di sviluppare business, di organizzare meglio la banca, di espandere le aree di competenza, di avere un portafoglio clienti rilevante, di avere svolto con buoni risultati analoghe attività in altre banche con grande successo, eccetera. Non possiamo sapere se tutti questi elementi siano stati oggetto di valutazione (lo speriamo), ma secondo molti commentatori il vero elemento decisivo per la scelta del futuro a.d. di Mps è da individuarsi nella sua abilità di evitare un aumento di capitale, operazione attuata con successo nella precedente esperienza. Non è la sede per entrare nel merito del caso specifico; il punto importante è la percezione del motivo della scelta.

Se questo è individuato nella capacità di evitare un aumento di capitale anziché di sviluppare business o in altre qualità “espansive”, allora siamo alle solite. Gli azionisti (perché la scelta dell’a.d. è, di fatto, materia di loro competenza) non sono volti a espandere il giro d’affari ed eventualmente, se le cose vanno bene, a dividersi lauti dividendi, con conseguenti benefici diretti e indiretti per tutto il paese. A motivazioni strettamente economiche preferiscono mantenere e gestire il potere, che evidentemente paga in modo diverso, ma più lucrativo di una gestione efficiente. Scegliere un a.d. in base alla sua capacità di dialogo con le autorità o all’abilità nel progettare manovre societarie o contabili allo scopo di evitare esborsi agli azionisti e alla fine di mantenere lo status quo per quanto riguarda gli equilibri di potere è un’opzione di retroguardia. In breve, per usare una metafora calcistica, se così fosse, il mercato dell’alta dirigenza bancaria preferirebbe i portieri (neanche i difensori) anziché gli attaccanti.

Niente calcio champagne quindi, ma il vecchio catenaccio italiano criticato in tutto il mondo, meno spettacolare, comunque qualche risultato l’ha dato. E quando l’avversario è più forte alla fine resta l’unica tattica da praticare. Applicato al mercato delle banche, il catenaccio non fa sperare nulla di buono; non lascia intravvedere nessuna possibilità di sviluppo, è solo una chiusura a riccio che non è neppure una difesa del proprio orticello. Tutt’altro; non può che essere una posizione di stallo che non porta da nessuna parte e soprattutto a nessuna possibilità di sviluppo. Se queste sono le premesse, la crescita della nostra economia appare sempre più un miraggio. Fino a che non si metterà mano pesantemente a una riforma del sistema bancario disboscando finalmente la foresta pietrificata, le banche resterann o ingessate come ora.

L’attuale configurazione del sistema è frutto di decisioni prese dall’alto, senza alcun riferimento al mercato: una serie di fusioni e acquisizioni dettate solo da convenienze “politiche” (in senso molto lato) senza alcun riscontro nel mercato. È necessario tornare indietro. Il mercato italiano non può sopportare troppe banche di rilevanti dimensioni. Il territorio richiede la dimensione tipica delle vecchie casse e popolari, che oggi non ci sono più. Occorre quindi smontare le varie aggregazioni “guidate” che hanno solo zavorrato le banche sane per salvare quelle malate o sono state motivate solo da necessità dimensionali oggi non più attuali. Solo ritornando alle vere banche del territorio ci potrà essere una decisiva ripresa economica. In caso contrario, non ci sarà che da vivacchiare in una recessione o, ancora peggio, in una stagflazione. tedes

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