Se Facebook minaccia i risparmi

Forse la mano invisibile del mercato si sta svegliando. Lo fa in un modo strano, forse neppure immaginato dai maestri dell’economia classica: si va in tribunale per una class action. Per la verità già alcune assemblee di banche e assicurazioni avevano visto il risveglio degli azionisti, che avevano incominciato a bloccare i bonus dei manager. Nel caso Facebook, si prospetta l’ipotesi di una class action, che rischia di essere contro tutti. In effetti, nell’ambito dell’ipo del social network più numeroso e, a questo punto, anche più costoso del mondo si è visto il peggio di quanto poteva esibire il mercato (corrotto). L’azionista, giovane ma già troppo avido come un vero squalo di Wall Street, non solo ha voluto fissare il prezzo di collocamento ai massimi della valutazione, ma ha pure aumentato il quantitativo di titoli offerti, la cosiddetta green shoe, fino al limite massimo preannunciato.

Tutto questo è avvenuto, almeno così pare – ma scopriremo presto la verità, perché si andrà a giudizio – mentre si celava ai sottoscrittori retail (il nostro vecchio parco buoi, che negli Usa chiamano in modo più antropomorfo, ma altrettanto irriguardoso, “soldi ottusi”) un previsto calo del fatturato pubblicitario con evidenti riflessi sugli utili dell’anno in corso. A completare il quadro si aggiunga il fatto che alcuni degli intermediari partecipanti al consorzio di collocamento hanno prestato i titoli collocati agli hedge fund affinché li vendessero al ribasso, mentre di contro il capo consorzio ha operato come agente per la politica di stabilizzazione delle quotazioni nei primi giorni di mercato (in breve ha acquistato azioni), guadagnando una commissione, per questa sola attività, di circa 100 milioni di dollari. In definitiva gli intermediari hanno guadagnato sia vendendo sia comprando titoli, a volte facendo contemporaneamente entrambe le cose. È vero che le cosiddette muraglie cinesi non dovrebbero consentire lo scambio di informazioni tra i settori diversi della stessa società, ma appare difficile credere che tutto ciò sia avvenuto in perfetta trasparenza e buona fede.

Al tutto, come ciliegina sulla torta, è da aggiungere che i sistemi di negoziazione del Nasdaq si sono “inceppati” determinando ulteriori perdite e disagi per i sottoscrittori. Il mercato ha reagito tramite le associazioni di consumatori che hanno promosso una class action sia nei riguardi di Facebook sia nei riguardi di quanti hanno gestito il collocamento e pure di Nasdaq per il blackout del suo sistema di negoziazione. I protagonisti, in negativo, della vicenda hanno già messo a disposizione degli investitori somme cospicue, che probabilmente non basteranno a ripagare gli investitori dei danni subiti. La class action pare destinata a partire. La vicenda pone ancora una volta sotto i riflettori della cronaca i comportamenti degli operatori di Wall Street e ne mette in discussione la credibilità. Da un lato il prezzo (gonfiato) del collocamento ricorda la bolla di Internet che si sgonfiò con effetti disastrosi, dall’altro il gioco (sporco) dei collocatori che prima favoriscono gli investitori istituzionali rispetto al parco buoi, celando a questi ultimi le previsioni di ribasso del fatturato, poi prestano titoli ai ribassisti e di contro e contemporaneamente “cercano” di sostenerne la quotazioni. Insomma, l’arbitro (il collocatore) gioca con entrambe le squadre sia ribassiste sia rialziste.

È il sistema più sicuro per guadagnare sempre, ma non è il modo di guadagnare la fiducia del cliente. Se le pensioni dei lavoratori americani dipendono da Wall Street, qualche problema Ci sarà. E in Italia? La class action sta muovendo ora i primi passi e le associazioni di consumatori non sono ancora tanto mature da proporre simili interventi. Andrebbero però fatti, perché in questo modo si possono mettere veramente nell’angolo sia gli intermediari sia le società che si comportano in modo scorretto.

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