Non tutto il bond vien per nuocere

Le profonde trasformazioni che stanno investendo il sistema finanziario impongono accurate riflessioni sull’interpretazione dei rischi che caratterizzano le singole asset class, e in particolare le obbligazioni. Su questo tema si ravvisano elementi di sensibile cambiamento rispetto ai punti fermi del passato. Il rischio si è tinto di nuove connotazioni. Ci soffermiamo su quello principale: il rischio di credito.

Le incognite sull’emittente
L’obbligazione è prima di tutto un prestito: bisogna innanzitutto accertarsi che si siano ottime probabilità che il debitore sia in grado di onorare i suoi impegni finanziari. In questo consiste il rischio emittente, o rischio di credito. Il rendimento, tuttavia, altro non è che una diretta conseguenza della condizione di rischio che investe uno Stato o una società. Trasmette all’osservatore informazioni molto importanti sui pericoli che si possono correre in un determinato investimento.

In genere, alta remunerazione equivale a buona opportunità, basso rendimento ad alternativa poco attraente. Ma ci si dovrebbe chiedere il motivo, per esempio, di un’elevata remunerazione offerta da un particolare emittente. Opportunità d’acquisto o pericolo incombente? Una prima, sommaria risposta è scritta proprio nel rendimento stesso: se nel confronto con altre obbligazioni di caratteristiche simili permangono sensibili differenze di remunerazione, i dubbi e le perplessità aumentano. In ogni caso, il più delle volte è necessario scendere nello specifico raccogliendo altre informazioni. L’attuale crisi ha parzialmente ridefinito la gerarchia di questi indicatori.

C’era una volta il rating
Una volta al primo posto c’era il rating, appannato dopo una serie di vicende finanziarie. È un giudizio che riguarda la possibilità di insolvenza in capo a un determinato emittente, governativo o societario. Esiste una scala di merito: si passa dalla massima affidabilità – la tripla A – fino ad arrivare allo stato di insolvenza, il default. Negli ultimi anni, la fama di questo indicatore si è incrinata a causa di diversi casi in cui la valutazione delle principali agenzie di rating non è stata in grado di anticipare i “credit event” che poi, puntualmente, si sono verificati. Tra i casi recenti più eclatanti, Lehman Brothers e Aig, che fino a pochi giorni prima del default vantavano un bell’investment grade. La lentezza e la scarsa capacità di leading indicator di questo strumento sono in parte mitigate dagli outlook con i quali le agenzie mettono sotto osservazione la “pagella” di un emittente.

Queste comunicazioni precedono il cambio di giudizio e hanno un immediato impatto sui prezzi obbligazionari. Il mercato, infatti, tende ad anticipare la decisione che si traduce, nei mesi successivi, in un upgrade o in un downgrade. È impensabile, comunque, non tenere il rating in debita considerazione. A livello operativo, emittenti con rating più basso devono offrire rendimenti più elevati, coerenti con la maggiore possibilità di insolvenza. L’investitore, dunque, deve aver cura di confrontare l’interesse offerto dal titolo oggetto di valutazione con altre emissioni che godono invece di rating massimo: se il differenziale è minimo, è lecito domandarsi se vale la pena assumersi un rischio maggiore a fronte di una remunerazione poco più generosa. Se invece il premio al rischio è appropriato, un ulteriore confronto andrà fatto con emissioni di analogo rating per cogliere eventuali disallineamenti di rendimento e, pertanto, maggiori opportunità di guadagno.

Tra spread e cds
Con particolare riferimento alla crisi del debito nell’eurozona, si è diffusa la necessità di misurare i differenziali di rendimento tra i vari titoli governativi dei Paesi membri, al fine di cogliere tensioni, divisioni e diversità che si sono accentuate tra gli Stati del Vecchio Continente. Da qui il ricorso allo spread, ossia la differenza tra il rendimento di due titoli. È lecito domandarsi, a questo punto, qual è il benchmark da individuare, in un mercato povero di riferimenti e privo di certezze. La congiuntura, oggi, dice che l’emittente più solido in Europa è la Germania, dunque è il suo titolo di Stato il più idoneo a svolgere funzione di benchmark. Questo approccio tuttavia è parziale e non risolve la questione di individuare il differenziale di rendimento rispetto a un tasso free risk e non rispetto a un titolo governativo che, per quanto solido, rimane pienamente coinvolto nell’attuale situazione di crisi e pertanto suscettibile a modificazioni del suo status.

Può allora essere utile adottare, al posto del Bund, l’Irs, ossia l’Interest rate swap. Si tratta di un contratto a termine, per scadenze superiori all’anno, in cui le due controparti si impegnano a scambiarsi i differenziali di rendimento tra un tasso fisso identificato all’inizio e pagato dal compratore e un tasso variabile fotografato periodicamente e pagato dal venditore. Le parti, dunque, si scambiano i flussi ma non c’è alcuna transazione del nozionale. Pertanto, non c’è rischio di controparte. L’uso di questo indicatore consente tra l’altro di estendere la valutazione anche al mondo corporate. Esiste poi un altro indicatore che si può impiegare per controllare il rischio di credito: il cds. Il credit default swap è uno strumento derivato nel quale il compratore paga un premio per assicurarsi contro l’evento default di uno Stato o di una società, su un orizzonte temporale che solitamente è identificato in cinque anni. Si tratta, in buona sostanza,di una forma di assicurazione. Il monitoraggio dei cds è utile perché, come in tutte le assicurazioni, se il premio aumenta significa che il rischio percepito dal mercato è maggiore. I cds continuano a essere al centro di molte perplessità in quanto strumenti non regolamentati e, quindi, soggetti a scarsa trasparenza e liquidità. Nonostante questo, rimangono un ulteriore valido supporto nel monitoraggio del rischio di credito di un emittente.

Il cruscotto delle spie
L’abilità dell’operatore consiste nel costruirsi un cruscotto fatto di spie in grado di monitorare la situazione nel complesso: se se ne accenda più d’una, deve scattare la consapevolezza di un pericolo potenziale, a fronte del quale è necessario prendere le dovute precauzioni. Diventa poi fondamentale fare un passo avanti e ragionare in termini di portafoglio, al fine di gestire un altro elemento molto importante: il tempo, che in campo obbligazionario prende il nome di duration. Si tratta di un indicatore utile a misurare la sensibilità del prezzo di un titolo ai movimenti dei tassi.

Per evitare sgradevoli sorprese, e in presenza di maggiore incertezza, è opportuno costruire il portafoglio obbligazionario attraverso posizionamenti su parti diverse della curva, in modo che la duration media consenta di sfruttare eventuali e improvvise variazioni dei tassi d’interesse: un aumento dei rendimenti, infatti, consente di mitigare la discesa di prezzo sofferta da un titolo a lunga scadenza con una maggiore remunerazione derivante dal reinvestimento di un’obbligazione appena scaduta. Viceversa, una discesa dei tassi implica meno rendimento sulle nuove operazioni ma una compensazione grazie all’apprezzamento dei titoli posizionati sulla parte lunga della yield curve.

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