Chissà se sarà vera indipendenza

La gestazione dell’Albo o Registro dei consulenti finanziari si arricchisce di un nuovo tassello: il ministero dell’Economia ha emanato il decreto relativo ai requisiti delle società di consulenza. Purtroppo il testo del decreto è molto “italiano”, nel senso che si presta a più di un’interpretazione e non prende inequivocabilmente posizione su almeno un paio di punti. È un’occasione persa, perché avrebbe potuto segnare la nascita della consulenza finanziaria indipendente nell’ordinamento italiano ed essere modello per le riforme di ordini e albi professionali. Cosa dice in sostanza il decreto 5 aprile 2012?

La società di consulenza finanziaria deve dichiarare i propri rapporti di qualunque natura con altri soggetti protagonisti del mercato, “se tali rapporti possono condizionare l’indipendenza nella prestazione della consulenza in materia di investimenti”. Il punto critico è chi giudica l’indipendenza. In prima battuta, è la società di consulenza stessa che, con una sorta di autocertificazione, dichiara che i rapporti di qualunque natura intrattenuti con chiunque non siano tali da intaccarne l’indipendenza. Il giudizio finale spetterà però all’organismo, il quale valuterà se quei rapporti possano impedire l’iscrizione all’Albo della società per mancanza del requisito d’indipendenza. La norma non è di così semplice interpretazione, perché in un altro comma dello stesso articolo – ovvero il comma 2 dell’articolo 3 – è previsto che la società possa fare parte di un gruppo, sempre che la struttura del gruppo non ostacoli la vigilanza. Questo però non attiene all’indipendenza e rimane una decisione dell’autorità di vigilanza. Qual è quindi il limite tra consulenza indipendente o semplice o in qualunque altro modo si voglia definire?

L’unico elemento chiaro e certo dell’indipendenza è il fatto che non si possa percepire alcuna commissione da persona diversa dal proprio cliente. Non solo quindi dalle società prodotto, ma anche da terzi, comunque questi siano definiti. Secondo l’interpretazione letterale, la consulenza non potrà essere oggetto di donazione o regalia, neppure in ambito familiare o in caso di promozioni aziendali. In breve, un’azienda non potrebbe offrire ai propri dipendenti e collaboratori un check up finanziario o l’analisi della propria posizione pensionistica, ma dovrebbe caricarne il costo a coloro che ne beneficiano. Potrebbe ottenere uno sconto, ma non pagare integralmente la consulenza. Sarebbe stato preferibile essere più rigidi ed espliciti nei rapporti di gruppo, stabilendo che un intermediario o un emittente non possa detenere partecipazioni in società di consulenza ed essere più “tolleranti” nei riguardi del soggetto che paga la consulenza. In fondo il punto essenziale, che mina l’indipendenza, è ricevere “incentivi” dalle società prodotto o dal loro gruppo o arrecare un vantaggio ad altri che non sia il proprio cliente.

Questo concetto d’indipendenza pone anche il problema delle sim di consulenza che siano promosse da una banca o una sgr o un intermediario in generale. La legge non le vieta, ma è evidente che a queste società si debba negare il requisito dell’indipendenza e quindi la loro consulenza debba avere diversi criteri di valutazione. Questa è la strada intrapresa nel Regno Unito e anche i documenti di consultazione della Commissione europea vanno in quella direzione. In Italia la riforma è in anticipo sui tempi, ma è abbastanza evidente, visto il nostro scarso peso in sede di Commissione europea, che a breve il nostro ordinamento sarà modellato su quello britannico. Altra incertezza riguarda le persone fisiche che operano per conto della società: si parla di soci, esponenti aziendali, collaboratori o ausiliari. Non si parla di personale dipendente in modo esplicito. I dipendenti sono collaboratori, specie nel linguaggio politicamente corretto odierno. Sarebbe meglio essere espliciti e chiarire in modo diretto la questione, non lasciarla alle solite opposte interpretazioni.

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