Tobin tax: se i politici sono divisi, la finanza non ha dubbi

Non è nemmeno nata ed è già scattata una prima manifestazione nazionale di protesta, a Rimini, per il 9 novembre. L’appello, visti i tempi, è stato lanciato via Facebook da un trader e subito sono arrivate numerose adesioni. La Tobin tax – l’accisa voluta fortemente dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che impone un’aliquota (probabilmente dello 0,01% sui derivati e dello 0,1% su azioni e obbligazioni) sulle transazioni finanziarie – è destinata a sconvolgere il panorama finanziario italiano ed europeo. Il 23 ottobre scorso la Commissione, braccio esecutivo dell’Ue, ha presentato la proposta di intesa. Entro il mese di novembre dovrà essere approvata dal Consiglio (cioè dagli Stati membri) a maggioranza qualificata, e successivamente dal Parlamento europeo. A quel punto, gli undici Paesi potranno accordarsi sui dettagli del progetto legislativo.

Già, gli undici. Meno della metà dei Paesi aderenti alla Ue. E questo è un bel problema. Ma forse lo sarebbe stato anche se tutta l’Unione europea avesse aderito. Secondo i tecnicismi della politica, è andata così: certificata l’impossibilità di procedere a 27 (non c’è l’unanimità, a causa di inglesi, olandesi e altri che non ci pensano proprio), 11 Paesi hanno deciso di ricorrere alla procedura di cooperazione rafforzata. È una possibilità offerta dal Trattato di Lisbona per aggirare i veti. Se almeno nove sono d’accordo, possono legiferare insieme.

L’entrata in vigore è prevista è per il gennaio del prossimo anno, tanto che l’Italia ha già messo in bilancio gli introiti stimati, in altre parole poco più di un miliardo di euro. “La proposta tassazione delle transazioni finanziari (Tobin tax) se diventasse effettiva a gennaio in Italia e solo in alcuni Paesi della zona euro (e comunque non in Gran Bretagna) porterebbe alla disintermediazione quasi totale della Borsa Italiana”, hanno scritto a quattro mani sul Sole 24 Ore, manifestando una preoccupazione doppia, due pezzi da 90 del mercato finanziario italiano come Alessandro Valeri, amministratore delegato di Intermonte sim, e Francesco Perilli, suo omologo in Equita sim, due concorrenti sul mercato che davanti al pericolo Tobin si sono subito coalizzati.

La pensa alla stessa maniera anche Fabrizio Tedeschi, oggi consulente strategico e operatore di m&a e fino a pochi anni fa responsabile della vigilanza sui mercati finanziari per la Consob. “Il governo prevede un vero e proprio tracollo del numero delle transazioni: -30% per il mercato azionario e obbligazionario e addirittura -80% per i derivati. C’è da chiedersi se l’obiettivo della tassa sia di far scomparire definitivamente il mercato finanziario italiano”. A Directa sim hanno fatto anche due conti. “Applicando la Tobin tax su 10mila euro medi si ottengono 5 euro che, sommandosi all’euro di costo ‘vivo’, danno un totale di 6 euro. Il costo dello scambio aumenterebbe del 500%, vale a dire di sei volte, ed è impensabile che un trader minimamente esperto non si rivolga a qualche altra piattaforma per evitare la gabella”.

E c’è chi si proietta in scenari apocalittici. “Sono a rischio 30mila posti di lavoro nelle sale operative”, batte il tam tam di Piazza Affari. Quello che è assai probabile è che molti operatori apriranno o svilupperanno le loro sedi londinesi in modo da bypassare i meccanismi di transazione. Su questo tema è intervenuto anche Giuseppe Vegas, presidente della Consob, che ha riconosciuti che “la legge ha alcuni punti di criti- cità” ma sul tema dello spostamento delle transazioni all’estero ha messo le mani avanti: “Un primo cruciale punto legato alla Tobin tax”, ha detto Vegas, “è quello della localizzazione degli intermediari: se noi riserviamo questa imposta alle transazioni che hanno oggetto titoli italiani, grazie a Monte Titoli, in qualunque posto queste transazioni avvengano, l’imposta viene percepita. Questo significa che non c’è una convenienza a spostare le transazioni dall’Italia all’estero su estero”.

Ma c’è davvero il rischio di un esodo degli operatori? La Commissione europea dice di no. L’argomento è che una banca italiana, per sfuggire alla tassa, dovrebbe chiudere la sede nazionale e rinunciare ai rapporti diretti con i suoi clienti in loco. Dovrebbe lavorare, per esempio, a Londra su Londra, con i clienti residenti fiscalmente nel Regno Unito. Vedremo. Comunque sia, gli esempi del passato non promettono niente di buono.

Gli svedesi ci hanno provato nel 1984, con un prelievo dello 0,5% applicato a tutti gli acquisti di titoli azionari e alle stock option. L’imposta venne raddoppiata nel 1986 e allargata fino a comprendere le obbligazioni. Il gettito fu alla fine piuttosto scarso, anche a causa di una massiccia fuga degli operatori dal Paese. E infatti venne abolita nel 1992. Ma, come al solito, la decisione di introdurre la Tobin tax è stata tutta politica.

L’hanno voluta soprattutto Germania e Francia. La cancelliera Merkel la vuole per mediare con i socialisti, il presidente François Hollande la vuole perché è socialista. Seguono: Spagna, Austria, Belgio, Grecia, Portogallo, Slovenia e Slovacchia. Attesa la richiesta estone. L’Italia ha avuto dubbi fino all’ultimo ma è entrata, anche perché non poteva proprio farne a meno. Il governo di Silvio Berlusconi aveva già detto di no. Quello guidato da Mario Monti, invece, pur di portare a casa qualche soldo in più, è disposto a correre il rischio.

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!

Tag: