Il prezzo della disuguaglianza, la verità sulla crescita negli Usa

Gli Stati Uniti è oggi il paese avanzato con la maggiore disuguaglianza del pianeta. “Negli anni del boom, precedenti alla crisi finanziaria del 2008, l’1 per cento dei cittadini si è impadronito di più del 65 per cento dei guadagni del reddito nazionale totale. E tuttavia, mentre il Pil cresceva, la maggior parte dei cittadini vedeva erodere il proprio tenore di vita. Benché sia riuscita a incrementare il PIL pro capite di tre quarti dal 1980 al 2010, non ha potuto impedire, la discesa dei salari della maggior parte dei lavoratori full-time di sesso maschile. Nel 2010, mentre la nazione lottava per superare una profonda recessione, l’1 per cento guadagnava il 93 per cento del reddito aggiuntivo creato nella cosiddetta ripresa”, questo il tema da cui parte Joseph E. Stiglitz, docente alla Columbia University e vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 2001, in “Il prezzo della disuguaglianza”, edito da Einaudi, per analizzare come gli Stati Uniti possano tornare ad essere la terra delle grandi opportunità e guidare i mercati finanziari ad una crescita di lungo periodo.

“Negli USA i numeri della povertà sono cresciuti rapidamente (di circa il 6 per cento solo tra il 2009 e il 2010)” e le nuove misurazioni indicano che “almeno un americano su sei sembra vivere in condizioni di povertà”.

Il declino delle opportunità è andato di pari passo con la crescita della disuguaglianza.
“In condizioni di piena uguaglianza di opportunità, soltanto il 20 per cento degli appartenenti all’ultimo quinto della popolazione vedrebbe i propri figli rimanere nello stesso ultimo quinto. Ed è praticamente così in Danimarca, dove il 25 per cento rimane dov’è. In Gran Bretagna, teoricamente famosa per la sua divisione tra le classi, la situazione è di poco peggiore, aggirandosi intorno al 30 per cento. Ciò significa che gli inglesi hanno il 70 per cento di possibilità di andare avanti. Negli Stati Uniti le chance di risalire la scala sociale sono decisamente inferiori: soltanto il 58 per cento dei bambini nati negli strati bassi della popolazione riesce a spostarsi”.

Secondo Stiglitz, che in passato ha ricoperto ruoli di primo piano all’interno della prima amministrazione di Bill Clinton ed alla Banca Mondiale, la disuguaglianza non nasce nel vuoto, ma è il risultato dell’interazione di forze di mercato e di manovre politiche; “le forze del mercato, plasmate dalla politica e dai mutamenti economici, hanno contribuito a generare il livello di disuguaglianza dei redditi prima delle imposte e dei trasferimenti. Paradossalmente, mentre i mercati iniziavano a portare a risultati più disuguali, la politica fiscale chiedeva meno a chi stava in cima alla scala sociale. L’aliquota marginale massima fu ridotta dal 70 per cento, in vigore sotto la presidenza Carter, al 28 per cento di Reagan; è poi risalita al 39,6 per cento con Clinton ed è ridiscesa al 35 per cento ai tempi di George W. Bush”.

Stiglitz continua ad essere uno dei più forti oppositori della globalizzazione, citando nel testo Dani Rodrik, professore ad Harvard, secondo il quale non si può avere allo stesso tempo democrazia, autodeterminazione nazionale e una piena e assoluta globalizzazione; “le compagnie internazionali tentano di ottenere sul piano internazionale ciò che non riescono a ottenere in casa”, per questo auspica che gli Stati Uniti possa farci carico di guidare il processo di globalizzazione secondo nuovi principi.

Nel libro vengono denunciate le numerose irregolarità condotte dal sistema finanziario statunitense, tra cui le attività con i derivati, i bonus elargiti ai manager che avevano portato le società sull’orlo del fallimento, il prestito predatorio, gli espropri irregolari ed i conflitti di interessi con il settore pubblico, Federal Reserve in primis.

 

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