Le banche facciano il loro lavoro, l’economia non può aspettare

Il riassetto annunciato di UniCredit secondo il ceo Federico Ghizzoni è la versione riveduta e corretta di un percorso che i gruppi bancari hanno intrapreso da qualche tempo. Una diversificazione del business sempre più marcata dove l’attività tradizionale, quella di prestare denaro a imprese e famiglie, non è più quella principale. Certo, non sto a discutere la strategia degli istituti, impegnati sempre più a integrare il proprio tipo di attività, alla ricerca continua di una redditività più facile da raggiungere con la proposta alla clientela di prodotti non tipicamente bancari: un portafoglio a più scomparti laddove svettano le voci dell’intermediazione immobiliare e delle polizze assicurative.

Quel che deve far riflettere è altro e riguarda la salute del sistema Paese nel suo complesso. Perché, in buona sostanza, il venire meno degli “sportelli” alla loro vocazione tradizionale (si può ancora chiamarla core?) ha determinato un brusco e pericoloso stop. Ovvero, che non c’è più nessuna banca che presta soldi perché il top management ritiene si tratti di un’attività diventata ormai troppo rischiosa e, per di più, assai poco profittevole. Ma questa pratica restrittiva non ha fatto che certificare la sostanziale paralisi del Belpaese quando, al contrario, sarebbe stato necessario, al tempo della Grande Crisi, un sostegno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’ennesima spallata a un’economia già di per sé più che traballante. Un quadro desolante perché le imprese soffocano, le famiglie annaspano, i consumi crollano.

D’altronde, i numeri parlano da sé: si apprende che dal 2009 solo le prime dieci banche hanno tagliato sui crediti alla clientela per la cifra esorbitante di 120 miliardi. Le due maggiori, UniCredit e Intesa, hanno limato per oltre 90 miliardi. Davanti a questa fotografia, conviene essere realisti. Non credo che la cinghia di trasmissione del denaro tra banche e imprese sia destinata a rimettersi in moto secondo le esigenze della nostra economia. Le banche, anche per l’aumento notevole delle sofferenze, continueranno a elargire credito con molta “parsimonia” muovendosi, come nel caso di UniCredit (ma altri brand del settore si metteranno sulla stessa strada) verso una filosofia che viene definita 2.0: “Gli stili di vita cambiano e serve un nuovo modo di fare banca. Il ruolo delle filiali evolverà da punto di accesso dei servizi bancari a luogo dove avvengono interazioni più complesse”, ha fatto sapere il ceo Federico Ghizzoni. Avanti così, ci mancherebbe.

Però, visto e considerato cosa sottende la nuova strategia del gruppo italiano più “internazionale”,
non vedo perché le banche debbano continuare a conservare il monopolio del prestito. Se esse paiono sempre più convinte di allargare i loro orizzonti del business, mi domando perché non possano entrare sulla scena del credito altri soggetti privati che, dimostrando di avere le carte in regola per effettuare seriamente l’attività, rappresentino un’interfaccia interessante per imprese e cittadini. Una liberalizzazione del mercato credo possa sortire benefici per tutte le parti. La concorrenza, quando è vissuta con criteri e comportamenti virtuosi, non può che far del bene. Dunque, se le banche intendono fare sempre meno le banche, si offra ad altri l’opportunità di operare, con giudizio, in quel segmento. Il monopolio bancario va riposto in soffitta. L’economia reale, bisogna ricordarlo, non può più attendere.

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