Quel 60% deve far paura a promotori e private

UN’ANOMALIA ITALIANA – Uno dei punti dolenti del mondo dei promotori finanziari italiani riguarda, com’è noto, quello del patrimonio complessivo affidato alle reti di consulenti che, parametrato allo stock della ricchezza del Paese, resta ormai da molti anni inchiodato attorno al 7-8%. Le ragioni di questa anomalia, poiché tale bisogna definirla visto il livello superiore di advisory finanziaria personalizzata che le reti offrono rispetto allo sportello bancario, sono molteplici e – anche queste – in larga parte conosciute. I promotori, si dice, specialmente quelli con grossi portafogli, si limitano a gestire l’esistente e non cercano nuovi clienti tant’è che lo scorso anno il numero dei nuovi clienti delle reti è cresciuto complessivamente solo del 3-4%, in un 2014 straordinario per il risparmio gestito. Ma altri numeri meritano di essere considerati. Li ha forniti la Consob in un’accurata ricerca (vedi estratto alle pagine 14-15) e sono numeri che fanno venire i brividi sulle disposizioni e sulle modalità all’investimento da parte dei nostri concittadini. Infatti con riferimento ai modelli decisionali, il 44% degli intervistati sceglie come investire dopo aver consultato familiari e conoscenti, solo il 22% si affida ai consigli di un esperto ovvero delega a questi la gestione dei propri investimenti (il dato si riferisce soprattutto a donne, lavoratori autonomi, soggetti di età compresa tra i 45 e i 64 anni o famiglie abbienti), mentre addirittura il 15% decide in autonomia (soprattutto ultra sessantacinquenni e meno abbienti).

IL 60%- I conti, per chi offre consulenza in Italia e in primis i promotori finanziari, sono presto fatti: quasi il 60% degli italiani (ma la percentuale è superiore visto che quasi il 18% residuo decide in modi diversi) non si serve di un’advisory personalizzata. Tenuto conto che la popolazione degli over 64 è destinata ad aumentare visto il trend demografico e che le reti non riescono ancora a intercettare efficacemente il risparmio nascente della generazione dei “nativi digitali”, c’è più di un motivo per preoccuparsi. Non solo. Gli investitori sembrano anche percepire poco i vantaggi connessi al ser¬vizio di consulenza rispetto a modelli decisionali differenti.

POCA DISPONIBILITA’ A PAGARE LA CONSULENZA
-  La disponibilità a pagare per la consulenza, infatti, rimane bassa sia tra coloro che fruiscono del servizio Mifid (oltre il 60% non si esprime o dichiara di non essere disposto a sostenere alcun costo) sia tra coloro che ricevono consulenza passiva o generica (circa l’85%). Tale evidenza è coerente con un livello di soddisfazione per il servizio di consulenza mediamente contenuto: in particolare, solo il 14% degli individui che utilizzano consulenza passiva e poco più del 20% degli investitori che ricevono raccomandazioni personalizzate o generiche esprimono un giudizio molto positivo. Il quadro non è esaltante, anzi. I promotori e i private banker devono esserne consapevoli e tramutare la sfida in nuova opportunità di business. E su questi temi ci aspettiamo si confrontino anche le liste che si sono formate in vista del congresso dell’Anasf da cui usciranno i nuovi vertici dell’associazione.

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