Il problema è capitale

di Marco Onado

Una delle principali lezioni della crisi finanziaria è che il capitale delle banche è cresciuto negli ultimi venti anni in misura meno che proporzionale alla straordinaria crescita del credito complessivo e dei rischi relativi. Fino all’agosto dello scorso anno, ci eravamo cullati nell’idea che i rischi fossero stati trasferiti al di fuori del sistema bancario e distribuiti a un’ampia cerchia di investitori. I 500 miliardi di dollari di perdite bancarie già emerse (e il conto non è definitivo) provano che si trattava di pura illusione: molti rischi gravavano ancora sul bilancio delle banche; altri sono stati richiamati, anche al di fuori di obblighi legali, per evitare guai maggiori dal punto di vista reputazionale; altri erano semplicemente nascosti sotto il tappeto, in quello che la Banca dei regolamenti internazionali ha severamente giudicato come “il sistema bancario ombra”, un modo fin troppo gentile per dire che i bilanci bancari non dicevano la verità.

LA BOLLA DEL CREDITO

Negli ultimi anni le principali autorità internazionali hanno ripetutamente indicato la possibilità di una grave crisi finanziaria, ma continuavano a sottolineare che il sistema bancario non era mai stato così robusto, grazie alla vigilanza prudenziale e in particolare alle regole di adeguatezza del capitale realizzate con i principi di Basilea a partire dalla seconda parte degli anni Ottanta. In più, quei principi stavano per essere rafforzati grazie all’imminente attuazione di Basilea 2.
La triste ma semplice verità è che negli ultimi venti anni (e in particolare nell’ultimo decennio) abbiamo assistito a una bolla speculativa del credito, con i connessi ingredienti di euforia, di profitti speculativi e di valutazioni troppo ottimistiche. Il capitale bancario era adeguato in quel roseo scenario, ma non per fronteggiare un serio shock. Non appena l’euforia è svanita, i mercati hanno cominciato a percepire un consistente rischio non solo di illiquidità ma anche di insolvenza (dunque di inadeguatezza del capitale) in tutte le principali banche. Con varia intensità, questo grave fenomeno dura da più di un anno, nonostante le massicce iniezioni di fondi attuate dalle banche centrali con operazioni assolutamente straordinarie per tipologia, volumi e durata. E nonostante gli interventi di salvataggio come quelli realizzati per Northern Rock (in questo caso addirittura una nazionalizzazione), Bear Stearns, e gli intermediari semi-privati del settore ipotecario americano (Fannie Mae e Freddie Mac).

BANCHE E ATTIVITÀ A RISCHIO

Per misurare la crescita del credito a livello globale nel lungo periodo, possiamo usare come proxy i dati degli Stati Uniti, data la difficoltà di ricostruire una serie. Il grafico seguente (1) dimostra che le attività totali delle banche sono cresciute molto più velocemente del prodotto lordo, trascinando i profitti bancari a livelli considerevolmente superiori alla media degli ultimi venticinque anni.

Figura 1 Banche Usa: totale attivo e profitti in percentuale del Pil
 

Anche il capitale delle banche, il presidio fondamentale rispetto ai rischi, è cresciuto, ma seguendo le regole estremamente semplici della regolamentazione di Basilea 1, entrata in vigore alla fine degli anni Ottanta, e non la sostanza della crescita dell’intermediazione bancaria e delle sue trasformazioni qualitative. L’effetto netto è stato che il capitale è cresciuto sì, ma solo proporzionalmente alle cosiddette “attività ponderate per il rischio” (il perno della regolamentazione di Basilea 1). Per di più, una parte della crescita del capitale era collegata ad attività immateriali (gli avviamenti pagati nei processi di acquisizione) che dipendono ovviamente dal valore dei prezzi di borsa e che quindi oggi dovranno essere ridimensionati. In sintesi: il capitale non è cresciuto abbastanza rispetto ai rischi effettivi e contiene una componente immateriale che dovrà essere ridimensionata.
Non sorprende che una recente ricerca indichi che il peso delle attività a rischio rispetto al capitale sia oggi incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi crisi precedente, come dimostra il grafico che segue, che indica il rapporto fra attività a rischio delle banche americane e il capitale tangibile, cioè al netto delle attività immateriali. (2)

Figura 2 Esposizione delle banche americane alle attività a rischio, in percentuale del capitale tangibile
 

Il punto fondamentale è che i dati di sistema illustrano la realtà fino a un certo punto. Quello che occorre mettere in evidenza è che molte banche hanno attuato un vero e proprio “arbitraggio regolamentare” consentendo al rapporto fra attività ponderate per il rischio e attività totali di ridursi in modo significativo. Poiché il complemento a cento del rapporto in questione è rappresentato da attività fruttifere che non possono essere considerate esenti da alcun rischio, è evidente che si è aperto una opportunità di profitti esenti da costi di capitale che alcune banche hanno sfruttato in modo estensivo.

Le banche che presentano i rapporti più bassi, fra cui compaiono con inquietante frequenza istituti svizzeri, inglesi, francesi e tedeschi, sono quelle che hanno spinto al massimo questo gioco e quindi hanno un peso del capitale rispetto alle attività totali più basso, spesso in misura significativa, rispetto alle altre. In chiaro sono indicate le banche italiane, che come si vede godono di una situazione nettamente migliore.
Questi dati confermano i risultati della ricerca economica stimolata dalla crisi (3), che ha dimostrato che il grado di leverage delle banche (cioè il rapporto fra totale dell’attivo e capitale) è cresciuto a un ritmo elevato negli ultimi venti anni e che esso è tendenzialmente prociclico, poiché risulta amplificato dall’interazione fra le scelte di indebitamento di famiglie e imprese (nell’ultimo ciclo dalle prime, per effetto del boom edilizio) e le scelte del sistema bancario sul livello desiderato di capitale. (4) I due motori del boom hanno di colpo rovesciato la direzione della spinta, come accade ai reattori degli aerei.
Stiamo perciò fronteggiando un faticoso e doloroso processo di aggiustamento di “deleveraging” del settore bancario internazionale, cioè di riduzione del grado di indebitamento complessivo o, se si preferisce, del volume di rischi per unità di capitale. Questo processo può diminuire in modo significativo l’offerta di credito da parte della banche (determinando cioè l’intensità del credit crunch) e amplificare le ripercussioni della crisi finanziaria sul ciclo economico mondiale.


LA CRISI FINANZIARIA TRA FALLIMENTO DEL MERCATO E FALLIMENTO DELLA REGOLAMENTAZIONE

Via via che il conto delle perdite si fa sempre più pesante, si allunga l’elenco delle cose che non hanno funzionato nel sistema bancario internazionale. L’ultimo rapporto della Bce (5) mette sotto accusa il sistema di valutazione da parte delle banche del valore dei titoli complessi, l’efficienza del mercato dei derivati nel trasferire i rischi, la trasparenza dei bilanci bancari, l’eccessivo ricorso ai mercati all’ingrosso nella politica di raccolta delle banche.
Se i problemi sono così vasti e penetranti, si capisce perché è stato detto che “la crisi finanziaria ha distrutto il mito che mercati finanziari non regolamentati possano allocare sempre in modo efficiente il risparmio agli investimenti più redditizi”(6). Ma se è così, occorre anche inte
rrogarsi sull’efficienza complessiva del sistema di regolamentazione bancaria degli ultimi venti anni, imperniato sugli accordi che hanno portato al regime di Basilea-1.
E’ lecito chiedersi dove è finita la “sana e prudente gestione” che è scolpita a caratteri di bronzo nelle leggi bancarie di tutti i paesi e qual è il giudizio da dare sulla vigilanza prudenziale (e mai ironia involontaria fu più bruciante) che ha preteso di controllare la finanza internazionale?

LIMITI DI BASILEA-1 E BASILEA-2

Il problema fondamentale è stato quello di consentire alle banche (meglio: ad un gruppo di grandi banche, spesso quelle che inseguivano il difficile trapasso dalla condizione di “campione nazionale” a quella di global player) di aumentare a dismisura i rischi complessivamente sopportati rispetto al capitale, che è il presidio fondamentale per sopportare shock di carattere micro o sistemico.
Basilea-1 ha avuto grandissimi meriti, ma aveva due difetti fondamentali: quello di essere (e questo era inevitabile in una prima applicazione) molto semplificato e quindi basato sul principio one-size-fits-all e quello di essere tutto orientato al rischio di credito, considerando in modo residuale altri rischi fondamentali come quello di mercato, quello di liquidità e non prendendo in considerazione il rischio operativo. Entrambi questi difetti di gioventù avrebbero dovuto e potuto essere superati con Basilea-2.
Ma qui la lobby dei soggetti regolati si è dimostrata più forte dei regolatori (o, se si preferisce, ha “catturato” alcuni regolatori nazionali che si sono fatti portavoce di quegli interessi nelle sedi internazionali). In primo luogo, si è infatti affermato il principio che il mercato è più efficiente delle autorità di regolamentazione a determinare il capitale bancario necessario ad assicurare la stabilità. O, il che è lo stesso, si è affermato il principio che solo il mercato e in particolare le banche, nella loro infinita sapienza operativa, sono in grado di valutare i rischi e quindi il capitale necessario.
Il secondo problema di Basilea-2 è che l’estenuante e lunghissima trattativa internazionale che ha portato al nuovo Accordo (dieci anni dal primo documento) era mossa dal desiderio di non imporre alle banche nuovi oneri in termini di risorse di capitale, ma anzi di consentire alle più “brave” di risparmiarne.

UNA CRISI PEGGIORE DELLE ASPETTATIVE

Come se non bastasse, molte autorità di vigilanza si sono dimostrate fin stroppo compiacenti verso i soggetti regolati, consentendo loro di assumere rischi senza neppure la protezione del credito di ultima istanza (è il caso di Bear Stearns) oppure di avere attività totali pari a 58 volte il capitale (è il caso di Northern Rock).
Ma è fin troppo facile accusare oggi la Fsa di non aver vigilato abbastanza, quando fino a qualche mese fa gli inglesi vantavano il “tocco leggero” della loro regolamentazione come elemento fondamentale della supremazia della piazza finanziaria londinese. Scatenando, fra l’altro, invidia e sentimenti di emulazione sull’altra sponda dell’Atlantico.
Nel Wyoming, terra di duri cowboys, le autorità internazionali si sono incontrate a fine agosto e hanno riconosciuto da un lato che la crisi risulta più grave di diagnosi in diagnosi e hanno convenuto sulla necessità di apportare modifiche non marginali alla regolamentazione prudenziale sul capitale (7). Analogamente, si impone una maggiore collaborazione internazionale e soprattutto una maggiore uniformità dei regolatori quanto a contenuti e stili della vigilanza prudenziale. Già il rapporto del Financial Stability Forum pubblicato ad aprile aveva formulato ben 57 raccomandazioni, molte delle quali rivolte agli operatori di mercato, ma altre che richiedono una risposta dei regolatori, soprattutto in termini di capacità di elaborare soluzioni condivise e omogenee.
Non sarà facile tradurre in termini operativi queste buone intenzioni. Per di più è lecito sospettare che quando la paura sarà passata, la severità dei regolatori e la loro disponibilità alla cooperazione si possa attenuare per far posto a un altra versione, magari solo edulcorata, di fenomeni di “cattura” da parte dei soggetti vigilati.

L’AUMENTO DEI RISCHI

Rimane comunque il problema di cosa fare nell’immediato perché da un anno a questa parte i tassi di interesse del mercato interbancario e i premi al rischio incorporati nei credt default swap (strumenti che rappresentano di fatto un’assicurazione contro il rischio di insolvenza di una banca) segnalano condizioni di anomalia mai viste prima. Il tasso che le banche pagano sul mercato interbancario (e che incorpora in gran parte un rischio di credito) è di circa 70 punti base superiore a quello di luglio 2007 (e si traduce in maggiori costi di raccolta che alla fine qualcuno paga). Il rischio di assicurazione è esploso rispetto a un anno fa, soprattutto per le banche americane e può essere tradotto in soldoni dicendo che il mercato stima che ci sia una probabilità su quaranta che una banca fallisca. Un’enormità rispetto alla visione tradizionale secondo cui le banche sono inaffondabili.
Quando poi, come è accaduto nei giorni scorsi, si annuncia pubblicamente che accadrà un altro caso come Bear Stearns, il gioco a identificare la prossima vittima rischia di avere effetti devastanti. Ma davanti a situazioni di emergenza, non possiamo aspettare che entri funzione un nuovo modello di vigilanza. Né possiamo passare da un salvataggio (magari con nazionalizzazione) a un altro. Se il mercato, oggi finalmente percepisce che i rischi bancari sono eccessivi rispetto al capitale, occorre anche, e soprattutto intervenire su quest’ultimo, cioè favorendo in tutti i modi i processi di ricapitalizzazione delle banche, ovviamente cominciando da quelle che hanno spinto all’estremo i processi di leverage.
Se le prestigiose autorità internazionali potessero essere trattate come Bush senior ai tempi della campagna presidenziale degli Stati Uniti del 1992, il motto potrebbe essere. “It’s the capital, stupid”.

 
Note
(1)Merrill Lynch (Stuart Graham), Remaining cautious for 2008: Increased risks to business models, 20 December 2007
(2)Morgan Stanley DownUnder Daily (Gerard Minack), Not Banking On It, June 24, 2008
(3)Tobias Adrian e Hyun Song Shin, Liquidity, Monetary Policy, and Financial Cycles, in “Federal Reserve Bank of New York, Current Issues in Economics and Finance”, January-February 2008.
(4)Marco Pagano, The Subprime Lending Crisis: Lessons for Policy and Regulation, in “Unicredit Group, Finance Monitor”, June 2008.
(5)European Central Bank. Financial Stability Review, June 2008, p. 12 e segg.
(6)Paul De Grauwe, Cherished myths fall victim to economic reality, Financial Times, 22 July 2008.
(7)Ben Bernanke,, Speech at the Federal Reserve Bank of Kansas City’s Annual Economic Symposium, Jackson Hole, Wyoming, August 22, 2008

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