Fondi sovrani in trasparenza

di Luca Ciferri (*)
tratto da La Voce.info

Negli ultimi dodici mesi, con i loro investimenti, i fondi sovrani hanno dato una boccata d’ossigeno a società costrette da forti difficoltà patrimoniali a ripetute svalutazioni, introducendo un elemento di relativa stabilità in un mercato finanziario che altrimenti avrebbe visto diverse blue-chip ricorrere a procedure fallimentari. La stampa internazionale ha cominciato a occuparsi del problema sostanzialmente nel maggio 2007, quando [s]China Investment Corporation[/s] (CIC), fondo sovrano cinese con una dotazione iniziale di 200 miliardi di dollari, ha acquistato una partecipazione in [s]Blackstone[/s], gruppo di private equity statunitense in procinto di quotarsi. L’investimento, pari a circa 3 miliardi di dollari per meno del 10 per cento, oggi quota al 60 per cento del valore iniziale.

LINEE GUIDA PER LA TRASPARENZA

Queste operazioni hanno generato una vivace discussione sulla scarsa disponibilità di informazioni circa il ruolo e le strategie operative di buona parte dei fondi sovrani, soprattutto per quanto riguarda quelli costituiti da governi non occidentali. Per far fronte alla mancanza di trasparenza, l’Ocse ha definito delle linee guida mentre il Fondo monetario internazionale, su incarico dei ministri delle Finanze e dell’Economia dei paesi del G7, ha appena emanato un codice di condotta su base volontaria, con ventiquattro principi, frutto del lavoro congiunto di un comitato cui hanno partecipato anche i principali fondi sovrani.

Il Sovereign Wealth Fund Institute, organizzazione non-profit, ha invece elaborato il cosiddetto “indice di trasparenza Linaburg-Maduell”: qualifica i fondi sovrani in relazione alla loro natura, alle loro strategie e alla qualità della corporate governance e della politica di accountability cui sono soggetti. Presupposto di tutti questi indirizzi è la definizione di fondo sovrano, un aspetto rilevante, in particolare, ai fini della attuazione delle linee guida che Fmi e Ocse imporranno ai paesi sottoscrittori degli accordi di ratifica. Se un fondo cadesse nella fattispecie, dovrebbe infatti rispettare le direttive del caso, affrontando tutti i problemi connessi con i livelli di trasparenza richiesti.

Molto resta ancora da fare, a partire proprio dal problema definitorio, che potrebbe avere interessanti implicazioni anche per il sistema italiano. I fondi sovrani, stando alla definizione del Fmi sono “speciali fondi d’investimento creati o posseduti da stati sovrani al fine di detenere attività in valuta estera con un orizzonte temporale d’investimento protratto”. Cosa s’intende per “sovrano”? In un’ottica federale lo sarebbe anche una regione italiana? Le attività devono necessariamente essere in valuta estera? Potrebbe una fondazione bancaria italiana essere considerata una sorta di fondo sovrano? Qual è l’orizzonte temporale di un investimento “protratto”? Recentemente, complice la debolezza del dollaro, Qatar Investment Authority, altro fondo sovrano medio-orientale, ha cominciato a convertire gli investimenti denominati in dollari in investimenti denominati in euro.

Per finire, poi, i fondi sovrani dovrebbero essere differenziati in funzione anche di altri parametri. Ad esempio, delle fonti del finanziamento, come cessione sul mercato di risorse naturali non rinnovabili, avanzi fiscali, proventi derivanti dai processi di privatizzazione, avanzi delle partite correnti; oppure degli obiettivi di policy perseguiti: stabilizzazione dei proventi dell’esportazione di commodities o accumulazione dei proventi stessi, impiego di riserve in valuta in strumenti di investimento a rendimento/rischio più elevato di quello tipico in cui sono investite le riserve ufficiali, destinazione di fondi a obiettivi di sviluppo infrastrutturale, investimento di risorse destinate al soddisfacimento futuro di prestazioni obbligatorie, quali le pensioni. Ciò permetterebbe di meglio comprenderne le strategie.

TRA RISCHI E PRAGMATISMO

Il dibattito sulla trasparenza dei fondi sovrani è in realtà sulle loro “intenzioni” e sulle loro politiche allocative e nasce sostanzialmente all’indomani della creazione nell’autunno 2007 di Cic, che prima ancora di veder ufficialmente la luce, aveva già compiuto l’operazione in Blackstone. Le preoccupazioni ruotano soprattutto attorno alla possibilità che Cic, od omologhi veicoli cinesi, compiano investimenti in aziende o settori considerati strategici dai governi, preoccupati non solo che la sicurezza nazionale sia posta in pericolo, ma anche che possa accelerarsi un processo di migrazione del know-how tecnologico verso la Cina, con effetti negativi sulla struttura industriale e occupazionale del  proprio paese. Dal momento che la Cina è stato il primo paese ad aver accettato il codice di autocondotta testé emanato dal Fmi, il timore sembrerebbe infondato.

Sull’altro piatto della bilancia, c’è però la nuda realtà delle cifre, che richiede di accedere alle disponibilità dei fondi sovrani, per porre rimedio agli eccessi speculativi. Le molte operazioni effettuate in quest’ultimo anno, che hanno coinvolto anche fondi cinesi, confermano che il pragmatismo alla fine vince. Sembrerebbe quasi che la comunità politica chieda alle organizzazioni finanziarie di controllo l’emanazione di una griglia di indicazioni, che possano fungere da “regole d’ingaggio” con i fondi sovrani. Se così fosse, sarebbe tuttavia un processo a posteriori: il mercato, infatti, pare aver scontato il rischio e già vi accede ampiamente, come dimostrano le operazioni delle banche statunitensi, incuranti dei risvolti geo-politici, concluse emettendo, se del caso, capitale ibrido, con o senza diritto di voto. La trasparenza e il problema definitorio dei fondi sovrani sarebbero, in altre parole, acqua passata, ormai.

Ma è un altro aspetto dei fondi sovrani che forse meriterebbe ancor più di essere indagato: il possibile prodursi di un effetto reversal. Dopo una lunga stagione di privatizzazioni avviate dai principali governi occidentali potrebbe infatti materializzarsi una sorta di nuova “statalizzazione” estero-vestita, problema acuito dal fatto che i fondi non sembrano voler svolgere ruoli da investitore attivo. Alto sarebbe dunque il rischio che si ricreino così le problematiche legate ai costi di agenzia, in generale, e, in particolare, quella del management entrenchment, in cui si costruiscono “alleanze” tra un management autoreferenziale e soci forti ma silenziosi, rendendo vano lo spirito che dovrebbe caratterizzare il libero mercato, ossia la concorrenza e la meritocrazia.

(*) Dirigente di ricerca, Giappone e Australasia, Istituto Superiore Mario Boella (Tokyo)

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