La ripresa difficile

La sensazione, in particolare, è che la grande stretta della liquidità, che ha colpito finora solo i bilanci di assicurazioni e banche, sia destinata nel breve-medio periodo a ripercuotersi con violenza sul sistema produttivo. 
 
Tre segnali sono significativi in tal senso: secondo la Banca Centrale Europea le condizioni di credito nell’eurozona sono diventate un po’ più difficili nel secondo trimestre a causa delle prospettive economiche negative, anche se il fenomeno è meno netto rispetto al primo trimestre. L’Eurotower nel consueto rapporto sugli impieghi bancari condotto tra aprile e giugno su un campione di 112 banche, registra che l’accesso al credito è diventato più difficile soprattutto per i prestiti a lungo termine e per le grandi imprese. 
 
Anche in Italia continua la stretta sui crediti erogati dalle banche alle imprese. Nel secondo trimestre, secondo la periodica indagine sul credito bancario realizzata dalla Banca d’Italia, emerge un’ulteriore moderata restrizione dei criteri adottati per l’erogazione di prestiti alle imprese. E anche per il terzo trimestre si prevede un’ulteriore lieve restrizione delle politiche di offerte del credito. 
 
Infine gli Stati Uniti: le condizioni del credito, secondo uno studio trimestrale della Federal Reserve, si sono inasprite negli USA a partire dal mese di aprile, sia per le imprese sia per i privati. Una gran parte delle banche americane ha detto di aver irrigidito i propri criteri per tutti i tipi di crediti ed è aumentato sensibilmente il numero di banche che ha inasprito i criteri per la concessione dei crediti al consumo, rispetto al rapporto di aprile. 
 
Perché il “credit crunch” finisce per colpire l’ultimo anello del ciclo finanziario? Basta fare qualche conto: dall’inizio dell’ultimo anno le banche hanno dovuto effettuare svalutazioni legate alla crisi dei subprime per la stratosferica cifra di oltre 500 miliardi di dollari. Del totale 250 miliardi sono stati “bruciati” dagli istituti di credito americani e 225 miliardi sono andati in fumo nelle banche europee. 
Si tratta di una cifra complessivamente ancora lontana dai 600 miliardi di dollari di ricchezza distrutta nei primi anni Novanta negli Stati Uniti dal crack del sistema delle casse di risparmi. 
 
Ma è altrettanto certo che le conseguenze borsistiche del ciclone subprime sul settore creditizio risultano devastanti perché sono stati bruciati 1.600 miliardi di dollari di capitalizzazione. Così le banche hanno dovuto bussare alle porte di azionisti vecchi e nuovi per riequilibrare i propri ratio patrimoniali, ricapitalizzando finora per complessivi 354 miliardi di dollari dei quali 160 in Europa e 177 negli Stati Uniti.
 
Il costo del “funding” tra le banche, quindi, non poteva non mantenersi elevato, tanto che il tasso interbancario Euribor è da mesi stabilmente oltre il 4,7 per cento. Le massicce, ripetute iniezioni di liquidità al sistema finanziario da parte delle banche centrali, con il meccanismo delle “aste” facilitate e l’accesso a queste anche alle banche d’investimento, hanno contribuito solo in parte a moderare tali tensioni. Così il “credit crunch” si è spostato dai piani più alti a quelli più bassi, con conseguenze che fin da ora si possono prevedere devastanti se è vero che sia l’Eurozona sia gli Stati Uniti sono alle prese con una congiuntura economica fatta di crescita vicina allo zero. 
In tali condizioni, infatti, centellinare o peggio negare il credito ad un sistema produttivo già malato grave può decretarne la morte per asfissia in brevissimo tempo.
 
Servono in fretta nuove regole? Non proprio. Servirà invece a settembre fare i punto se e come i grandi operatori finanziari, oltre a leccarsi le ferite, sono stati in grado di avviare quelle 64 riforme suggerite ad aprile dal Financial Stability Forum presieduto dal governatore di Banca d’Italia Mario Draghi. Ricette definite una medicina insufficiente dal nostro ministro dell’economia, Giulio Tremonti. 

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