A cosa servirà questa crisi?

di Giovanni Bottazzi, Malcolm Duncan e Alfonso Scarano

I modelli di riferimento
Per un lungo periodo di tempo i Paesi dell’Europa, fra cui l’Italia, hanno guardato a modelli provenienti dall’estero in molti campi dell’organizzazione sociale, specialmente in quello finanziario. Ovviamente faceva scuola il mercato finanziario più ampio ed avanzato del mondo, quello statunitense. Ma ora che i clamorosi fallimenti di quel sistema costringono una Amministrazione repubblicana al salvataggio della finanza e dell’economia con un intervento pubblico di dimensioni imponenti tutto ciò ci riporta a quanto avvenne da noi ben 75 anni fa, con la costituzione dell’IRI. Viene quindi spontaneo riconsiderare se non sia il momento di cercare noi la nostra vera strada.

Potrà sembrare il momento peggiore per parlare di regolamentazione generale dei mercati finanziari, perché in argomento veniamo da fresche riforme molto importanti: è in fase di avanzata attuazione la direttiva comunitaria MiFid. Riparlarne proprio adesso che i giochi sono fatti, dopo un così considerevole dispendio di energie?
Proprio così, può darsi che lo scossone risvegli l’attenzione per cominciare a pensare se non ci sia qualcosa da rivedere proprio nelle scelte iniziali della direttiva europea. Posto che ne era apprezzabile l’obiettivo, ossia creare un’area europea con mercato finanziario unico ed efficiente come già si era fatto per l’economia reale, MiFid ha benedetto alcune scelte a nostro avviso incongrue. Dando molto peso anche alle tendenze in atto, al preponderante modello finanziario renano, ha sancito una situazione di sovrapposizione in capo agli stessi soggetti di varie figure di operatore finanziario, tradizionalmente tenute distinte in onore ad un elementare buon senso. Intermediario per conto terzi e operatore in proprio, raccolta dei depositi bancari, gestione del risparmio e banca di investimento avrebbero potuto d’ora in poi rappresentare le varie funzioni dello stesso operatore. Inoltre, ha consentito agli intermediari di costituire nuovi mercati in concorrenza con le Borse tradizionali. Tutto questo ha reso così sistemica una serie di possibili contrasti di ruoli e scopi connessi, ossia i conflitti d’interesse, che a lungo ne avevano consigliato la distinzione tra soggetti diversi. Significativamente, gran parte dell’attuale normativa di vario livello riguarda proprio le misure tese a contrastare le conseguenze ultime dei conflitti d’interesse che possono verificarsi nella pratica. In sostanza, si è cercato un rafforzamento delle cosiddette “muraglie cinesi“, un nome un presagio, visto che la Grande Muraglia non ha salvato il Celeste Impero dall’invasione dei Mongoli.
Temiamo che il metodo seguito sia efficace quanto fermare il vento con le mani, e perseverare sia quindi piuttosto farisaico. Ci chiediamo se sia stato ben soppesato il probabile scetticismo del pubblico circa la validità di quelle barriere artificiali, con il rischio di minare la tradizionale fiducia nella banca cui affida i suoi risparmi. Guai se ciò accadesse. Forse hanno invece pesato pressioni di potentissime lobby, che già hanno avuto successo con questo medesimo obiettivo negli Stati Uniti.


Dove si nasconde l’errore?
Oggi potrebbe sembrare antipatico infierire sul dissesto finanziario e i suoi autori, un po’ come sparare sulla Crocerossa; ma possiamo facilmente documentare la nostra antica opinione su questi problemi, da ultimo con il Quaderno 136 online pubblicato mesi orsono da AIAF, l’associazione degli analisti finanziari italiani. Abbiamo sempre ritenuto che il problema si sarebbe invece dovuto risolvere a monte, ripristinando princìpi che per decenni avevano assicurato mercati ordinati. In precedenza prevaleva nel mondo una saggia divisione dei compiti tra Borse, aventi una finalità comune, se non pubblica, e intermediari finanziari, tra cui le banche; e queste erano, a loro volta, distinte in banche d’affari e banche commerciali. Ora molte di queste distinzioni sono cadute sia in Europa, sia negli Stati Uniti. Se ne vedono le conseguenze negli eccessi della crisi esplosa negli Stati Uniti nell’agosto del 2007, ma latente da tempo. Negli USA, a partire dal 1999, si è avuta la caduta delle barriere tra banche commerciali e banche d’investimento e qualcuno ha salutato l’evento con entusiasmo, esaltando la “magnifiche sorti e progressive” di un’industria finanziaria in fenomenale espansione. Ahime! In questi giorni le famose banche d’investimento o falliscono o si trasformano in banche commerciali.
In Italia questa distinzione è caduta anche in anticipo di tempo. Se ricordiamo che sta cadendo anche il diaframma tra imprese e banche, ci accorgiamo che manca soltanto la caduta del diaframma nel rapporto contrario tra banche e imprese per ritornare ad una situazione altrettanto critica di quella esistente ai tempi della Grande Depressione del 1929. Quello che avantieri non era di moda, potrebbe diventarlo domani: infatti ora forse qualcuno comincia a ricredersi se, riferendosi al caso del crack Lehman Brothers, su un quotidiano di questi giorni (24 Ore, 18 settembre) sventola il titolo: “E’ la fine della banca tuttofare”. Quello che non era di moda avantieri potrebbe diventarlo domani.

Meglio o peggio di allora?
Irresistibile è il richiamo a quella crisi, che fu al tempo stesso finanziaria ed economica; e non è inutile, anche per valutare le differenze tra oggi ed allora. La crisi economica attuale sembrerebbe meno drammatica per vari motivi, tra cui la scemata incidenza in campo mondiale dell’economia statunitense per l’emergere di altri importanti Paesi. Inoltre, allora le autorità statunitensi operarono nel senso di aggravare la crisi, anziché alleviarla; ma poi venne Keynes ad insegnare una teoria moderna. Cosdì oggi le autorità possono decidere e decidono effettivamente meglio sul da farsi.
Quindi, da un lato oggi stiamo meglio. D’altro lato, il confronto tra le due situazioni evidenzia anche un’altra grande differenza, che dovrebbe invece impensierire: mai la finanza “di carta” aveva travalicato di tanto le dimensioni delle economie. Mentre nel 1929 la finanza era più o meno la fotografia dell’economia reale, con dimensioni pari o poco maggiori, oggi è pari forse 12 volte, o forse più. Per giunta, soltanto una quota inferiore al 10% degli strumenti finanziari incriminati di avere generato la crisi finanziaria corrente circola sui mercati ufficiali, ma il grosso sui mercati OTC. Un affronto alle esigenze della vantata trasparenza, tenuto conto anche dell’opacità insita in molti fra quei titoli. Fra di essi molti poi sono legati a indici complessi, elaborati dalle stesse case emittenti, che oggi sono sulla via del fallimento. Veleno, per la fiducia dei sottoscrittori.
E’ ovvio che in queste condizioni gli inevitabili alti e bassi della finanza si manifestino in modo molto più pronunziato; ovvio che possano formarsi non solo ondate normali ma veri tsunami, cui le autorità monetarie per evitare il peggio oppongono manovre correttive che non curano la malattia ma soltanto i peggiori sintomi, inoltre costose e di efficacia pari all’eccezionalità, quindi soggetta ad un decadimento noto come azzardo morale.

Giovanni Bottazzi, Malcolm Duncan e Alfonso Scarano sono Soci AIAF, e scrivono a titolo personale senza che le loro idee costituiscano la posizione ufficiale di AIAF

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