La banca consulente

Si susseguono le sentenze che annullano o dichiarano nulli i contratti derivati stipulati dai comuni italiani, vuoi per essersi conclusi fuori sede, vuoi per non essere il comune in grado di stipularli, vuoi perché contrari a norme imperative che impongono agli enti pubblici di agire solo per la copertura di rischi. Tutte cose importanti sia per l’aspetto legale sia per l’effetto che hanno sulle finanze pubbliche italiane. Una di queste sentenze (Tribunale Roma, 18 luglio 2016) merita di essere segnalata, oltre che per la dettagliata analisi dei derivati e della loro dannosità a priori per l’ente pubblico con conseguente inevitabile nullità, per la pesante reprimenda nei confronti della banca che, in veste di consulente del cliente, non ne aveva fatto l’interesse. Al contrario aveva perseguito il proprio, facendo sottoscrivere strumenti finanziari non a favore bensì a danno del cliente e a proprio vantaggio.

Il ragionamento del magistrato è semplice e lineare. La banca si è comportata da consulente, perché non si è limitata a proporre gli strumenti finanziari, ma ne ha caldeggiato la sottoscrizione scrivendo chiaramente che si trattava di un’operazione nell’interesse del cliente e adatta alle sue necessità. In questo modo è diventata consulente e non semplice collocatore, poiché ha raccomandato uno strumento presentandolo come tagliato sulle caratteristiche ed esigenze del cliente.

Nel fare ciò la banca non ha affatto manifestato il suo conflitto d’interesse, come imposto dalla normativa di settore e dalle norme generali sul mandato, e in qualche misura ha tratto in inganno l’ente pubblico. La sua posizione di controparte del derivato ha tolto ogni sostanza di terzietà alla sua raccomandazione.
Ora viene da chiedersi quanti siano i casi simili in Italia e non solo per le operazioni in strumenti derivati: quanti intermediari si sono presentati (ora non più) come consulenti finendo per fare il proprio interesse, anziché quello della clientela.

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