Tutti i consulenti finanziari italiani dovrebbero leggere con attenzione un report recente scritto da Nadia Linciano, Monica Gentile e Paolo Soccorso che fanno parte della Divisione Studi della Consob. “Report on financial investments of Italian household. Behavioural attitudes and approaches” è il titolo di questo documento che, se letto con la dovuta attenzione, è un vero pugno nello stomaco per tutta la consulenza.
Cominciamo a guardare il bicchiere mezzo pieno, a considerarlo tale. A fine 2015, una famiglia italiana su due partecipava ai mercati finanziari tramite investimenti soprattutto in titoli di stato italiani (13%), seguiti da fondi e Sicav (poco meno del 12%) e dalle obbligazioni bancarie nazionali che superavano il 9%. Le prime due asset class sono in crescita rispetto ai dati di una precedente analisi del 2007, i bond creditizi invece sono in calo se confrontati con sette anni fa. Quali sono i fattori che incentivano l’investimento? Il capitale protetto e/o il rendimento minimo garantito è di gran lunga il primo elemento (70%) seguito a notevole distanza (poco opiù del 50%) dalla fiducia negli intermediari finanziari. L’italiano come decide di investire? Una percentuale altissima (38%) si affida ai suggerimenti di familiari e amici, adottando quindi l’”informal advice”. Il 28% decide dopo aver consultato un esperto, solo il 10% delega le scelte di portafoglio a un professionista.
Scendendo in profondità nel business della consulenza finanziaria il bicchiere da apparentemente mezzo pieno si fa certamente mezzo vuoto. Infatti solo il 28% degli investitori italiani si avvale della consulenza evoluta Mifid; mentre quasi il 40% adotta una consulenza ristretta. Come se non bastasse nell’ambito dell’advisory il 33% ha una bassa proattività e quindi fruisce di una consulenza passiva a tutti gli effetti. Apparentemente consolatoria è la spiegazione che per il 33% degli italiani è la dimensione ridotta dei loro investimenti il motivo che scoraggia la domanda di consulenza, perché poi oltre il 20% dice di non fidarsi dei consulenti finanziari e per quasi il 10% il servizio di advisory è comunque troppo costoso. Non solo: anche fra chi usufruisce di consulenza a valore aggiunto oltre il 50% ha difficoltà a formulare un giudizio sul proprio advisor.
Se il quadro fosse solo questo i consulenti finanziari italiani dovrebbero iniziare a pensare di cambiare mestiere.
Ci sono però 3 elementi fondamentali descritti nello studio che alimentano la fiducia nel proprio advisor. Anzitutto (36%) il fatto che aiuta il cliente a comprendere i potenziali rischi e i potenziali rendimenti degli investimenti, poi (34%) che verifica periodicamente l’adeguatezza dell’investimento e infine (24%) che è indipendente. Non a caso la propensione a pagare per la consulenza, che resta ancora comunque bassissima, cresce con il grado di personalizzazione della raccomandazione. Se i consulenti finanziari hanno un futuro devono far leva sugli elementi chiave che rendono il bicchiere mezzo pieno.