PF: per cambiare è necessaria anche una svolta generazionale?

“La maggior parte dei promotori finanziari ogni giorno lavora pianificando ai clienti le loro esigenze finanziarie, quindi le istituzioni devono solo ufficializzare il ruolo al promotore finanziario. Il cambiamento lo devono fare sopratutto le reti, le quali sono rimaste le stesse strutture piramidali di 20 anni fa”. 

E’ sintetico ma efficace il giudizio dei lettori di Bluerating riguardo la possibilità che i promotori italiani si trasformino in financial planner come nella migliore tradizione anglosassone, recuperando quegli spazi di operatività che l’altalena dei mercati da un lato, la scarsa cultura finanziaria dall’altra e le politiche distributive (e retributive) finora adottate dalle mandanti hanno gradualmente eroso con gli anni.

 

Certo il problema di rinnovare le strutture e i sistemi di incentivazione in modo coerente con la asserita volontà di favorire la cultura finanziaria dei risparmiatori italiani appare centrale e non poche volte si è avuta la sensazione che qualcuno versi lacrime di coccodrillo riguardo questa mancanza di cultura. Dopo tutto per molti il fine ultimo di qualsiasi attività è solo il conto in banca e disquisire di cultura e filosofia appare un lusso per pochi “illuminati” (o al contrario “stupidotti” a seconda dei gusti) specialmente in tempi che al di là della retorica ufficiale vengono percepiti ancora come “di crisi” dalla stragrande maggioranza dei cittadini (e risparmiatori) italiani.

 

Eppure senza una maggiore consapevolezza della necessità di cambiare, il settore difficilmente potrà ripartire né sembrano in grado di risolvere la situazione operazioni pure importanti (ma più per le tasche degli azionisti che per dipendenti, promotori o clienti) come il collocamento sul listino di Banca Fideuram (ed in un futuro più o meno lontano eventualmente di Pioneer Investments). 

 

Del resto le cattive abitudini sono dure a morire anche all’estero e basta scorrere le pagine di qualsiasi giornale finanziario o sito specializzato per rendersi conto che loro, “gli americani”, sono tornati a macinare milioni di dollari come prima e più di prima, collocando strumenti levereggiati e asset a rischio secondo modalità non dissimili da quelle che meno di due anni fa hanno causato il crack di Lehman Brothers e scatenato la più violenta recessione economico-finanziaria degli ultimi decenni.

Perché stupirsi dunque se anche in Italia il rinnovamento stenta a decollare. Ci si permetta del resto un’ultima osservazione: se controllate la carta anagrafica di alcuni personaggi che hanno una qualche importanza sul settore vi accorgerete che c’è un problema di ricambio generazionale, o che in Italia la vita “vera” comincia ben dopo i sessant’anni. 

 

Solo per citarne alcuni, Silvio Berlusconi (presidente del consiglio e secondo maggiore socio di Banca Mediolanum) ha 74 anni, il “giovane” Giulio Tremonti (ministro del Tesoro) ne ha 63, Lamberto Cardia (presidente Consob) ne dichiara 76, Cesare Geronzi (presidente di Mediobanca e candidato presidente di Generali) è di un anno più giovane e Giovanni Bazoli (presidente di Intesa Sanpaolo) di anni quest’anno ne compie 78. Che il problema di dare una svolta al settore finanziario e al risparmio gestito in particolare passi anche da un rinnovamento dei vertici di istituzioni e società private? 

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