L’esame del rischio

di Silvio Bencini

È sicuramente banale affermare che “conoscere il cliente” è una premessa indispensabile per svolgere correttamente un’attività di consulenza finanziaria. Lo è meno ammettere che questa fase iniziale del rapporto è vissuta dalla maggior parte dei consulenti, siano essi private banker, promotori finanziari o consulenti indipendenti, come un pesante e talvolta imbarazzante adempimento burocratico di scarsa utilità. Secondo gli autori della Guida all’applicazione della normativa ISO 22222 sulla pianificazione finanziaria, pubblicata a gennaio di quest’anno, una spiegazione è la pretesa implicita che il profilo del cliente possa essere sintetizzato in un’unica misura di “tolleranza al rischio”. Per questo nella Guida si propone un approccio più articolato, nel quale la tolleranza al rischio del cliente viene misurata sia come “capacità di rischio”, oggettivamente determinabile una sorta di stato patrimoniale prospettico, sia come “attitudine al rischio” (determinata in modo soggettivo).
A sua volta l’“attitudine al rischio” viene scomposta in tre componenti:

  • Rischio di fluttuazione;   
  • Rischio di liquidabilità;
  • Rischio di prestazioni

Nel proporre questa classificazione l’UNI invita a utilizzare “stime probabilistiche oggettive (ossia rispettose del principio di neutralità al rischio) coerenti con l’orizzonte temporale delle esigenze e degli obiettivi” e a evitare “a) indicazioni qualitative che si prestano ad ambiguità…b) utilizzo di indici tecnici che non sono facilmente comprensibili (quali: deviazione standard, beta, ecc.); c) misurazioni su tempi difformi rispetto a quelli previsti per il personal financial planning (quali: VaR a 1 anno per investimenti per durata diversa)”. Questo approccio comporta una serie di miglioramenti indubbi. Proponendo come prima misura di rischio una valutazione “contabile” della “capacità di rischio” la Guida sottolinea che prima di prevedere i rendimenti dei mercati occorre avere le idee chiare sul patrimonio disponibile in valore assoluto e una previsione ragionevole delle entrate e uscite. Normalmente l’effetto di questa prima valutazione, soprattutto quando si mettono in luce tutti i bisogni dell’investitore privato, è che la quantità di capitale da mettere a rischio si riduce.
In secondo luogo, indagare in modo più circostanziato e da punti di vista diversi sulla “attitudine al rischio” può far emergere contraddizioni o incomprensioni prima che il processo di investimento cominci.
Il rischio di fluttuazione misura la perdita massima sul capitale iniziale con una certa probabilità che il cliente è disposto a tollerare all’interno del periodo di investimento. Il rischio di liquidabilità misura il tempo massimo tollerato, con una certa probabilità, per non subire perdite sull’investimento iniziale, dovendo essere questo periodo ragionevolmente inferiore o uguale alla durata dell’investimento. Il rischio di prestazione è la probabilità di non perseguire un montante finale in termini reali superiore a un certo valore. Nel suo commento alla Specifica Tecnica pubblicato a marzo di quest’anno in un supplemento sulla consulenza finanziaria del quotidiano Italia Oggi, Gaetano Megale sottolinea i benefici di questo approccio come superamento della logica “unidimensionale” del VaR (2) e sembra di capire che la scelta di tre misure diverse dovrebbero arricchire la rappresentazione del rischio al cliente.

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