Anche i banchieri hanno le loro colpe, ma chi le ricorda?

Il caso UniCredit impazza sulla stampa italiana, che come in analoghe occasioni dopo aver atteso a lungo lo “scoop” dell’uscita di scena dell’uomo che in 15 anni ha portato la capitalizzazione dell’istituto da 1,5 a 37 miliardi di euro, senza mai dover segnare neppure un trimestre in rosso anche nel corso dell’ultima crisi finanziaria, è stato “spintaneamente” accompagnato alla porta dai suoi azionisti non appena i risultati non son più stati dalla sua parte e però le turbolente acque in cui UniCredit naviga sono apparse meno pericolose che anche solo due o tre trimestri fa.

 

Che Profumo non avesse capito che l’aria era cambiata è improbabile, anche ex post, visto che le fondazioni, del Nord o del Sud che siano, sono storicamente azionisti che chiedono un flusso di dividendi il più possibile stabile alle loro partecipate, così da poter svolgere quell’azione di erogazione sul territorio per la quale sono state fin dall’inizio pensate. Non a caso il più riservato di tutti finora è stato proprio l’ex numero uno, che in poche ore ha raggiunto l’ultimo e unico accordo che poteva ancora avere un senso cercare, quello sulla propria liquidazione personale.

Nell’immediata beatificazione del manager in molti si dimenticano che anche Profumo ha avuto le sue colpe e le sue umane debolezze, non solo e non tanto per i rischi che ha fatto correre ai suoi azionisti (visto che di banche con creditori pericolanti, specie nel settore immobiliare o della grande distribuzione, l’Italia e non solo è piena già da alcuni anni), quanto perché per ottenere certi risultati non ha esitato a distribuire prodotti rivelatisi poi “tossici” a molte aziende clienti.

Una politica commerciale molto redditizia per gli interessi della banca, molto meno per i clienti della stessa, al punto che a Profumo e ad altri consiglieri di UniCredit a suo tempo vennero da Consob applicate sanzioni pecuniarie (poi confermate dalla Corte d’Appello di Milano). Una valutazione del banchiere, in questi giorni, la stampa italiana ma pure quella estera si guardano bene dal darla se non parlando per cifre assolute come, appunto, la capitalizzazione di borsa. Forse varrebbe la pena riflettere sul perché certe analisi sull’operato dei vertici del settore creditizio italiano (e sulle conseguenze per aziende e risparmiatori individuali) non vengono proposte.

 

Sarebbe un primo passo verso una maggiore trasparenza a vantaggio di coloro per le quali le banche dovrebbero lavorare e che i promotori finanziari italiani conoscono molto bene: i clienti. Fino a quando la trasparenza potrà essere un optional in Italia? Attendiamo al riguardo la vostra opinione e le vostre riflessioni su quanto ciò può comportare operativamente per chi ogni giorno opera a contatto con la clientela finale, come voi.

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