Contratto di agenzia, maneggiare con cura

Sono tante le tematiche di discussione che interagiscono con la quotidianità del promotore; tralasciando quelle relative al gossip sui giri di poltrone nelle reti più in vista, senza dubbio il contratto di agenzia rientra tra le più dibattute. Proprio per l’estrema importanza del tema Advisor ha deciso di parlarne con uno dei massimi esperti in materia, l’avvocato Luca Frumento dello Studio Legale Frumento di Genova, già noto alle cronache della consulenza nostrana per l’assidua partecipazione come relatore a diversi seminari Anasf dedicati. Ecco quanto ci ha raccontato sui principali nodi della questione.

Il contratto di agenzia del promotore finanziario presenta delle particolarità rispetto a quello disciplinato dal codice civile?
Sì, senz’altro. Basti pensare al vincolo di monomandato previsto dall’art. 31 Testo Unico Finanza, che impone al promotore di svolgere attività per un solo intermediario, a pena di radiazione dall’albo. Certamente, il codice civile prevede anch’esso un meccanismo di esclusiva a favore della mandante (ed anche il reciproco, nella zona attribuita all’agente non potranno operare altri agenti), ma si tratta di un elemento cosiddetto ‘naturale’, e cioè di una previsione default di legge, che può essere derogata dalle parti mediante apposite clausole contrattuali. È poi normale che il contratto di agenzia del promotore finanziario sia a tempo indeterminato e, quindi, liberamente recedibile ad iniziativa dell’una o dell’altra parte nel rispetto del preavviso. Da questo punto di vista la posizione del promotore agente è simmetrica e paritaria rispetto a quella dell’intermediario: così come l’agente può esercitare il recesso senza necessità di invocare particolari motivi, con analoga libertà la società potrà decidere di mettere in preavviso il proprio promotore (senza dunque che ricorrano giuste cause e senza necessità di esplicitarne i motivi).

E’ utile per il promotore che il contratto richiami l’accordo collettivo agenti?
La questione è dibattuta. I giudici si sono negli ultimi anni affannati a trovare un criterio accettabile di preferibilità della norma contrattuale collettiva rispetto a quella di legge, specie per quanto riguarda la determinazione dell’indennità di fine rapporto. In tema di indennità l’AEC risponde alla regola “un po’ di meno, ma per tutti”, mentre la norma di legge alla regola “di più, ma solo ai meritevoli”. È quindi chiaro che, se il criterio di preferibilità è astratto e medio, la norma di AEC è senz’altro preminente. Nella nostra giurisprudenza si è andato formando, anche sulla scorta di un noto pronunciamento della Corte di Giustizia dell’UE di qualche anno or sono, un orientamento che attribuisce alle indennità previste per AEC (che sono sostanzialmente costituire dal cosiddetto FIRR, che viene normalmente accantonato presso l’ENASARCO, oltre che dall’indennità suppletiva di clientela, cosiddetta ISC) la funzione di indennità minima di base, che può essere incrementata ove l’agente dia prova di aver in concreto arrecato utilità alla società e che tale situazione permane nonostante lo scioglimento del rapporto.

È sempre più frequente che le società deroghino al compenso provvigionale puro per adottare modalità di retribuzione differente, ad esempio di erogazione degli acconti da conguagliare con il maturato. Sono meccanismi leciti?

Sì, fatti salvi i casi in cui le aliquote provvigionali in base alle quali calcolarsi il maturato siano così esigue da far ritenere impossibile che il promotore riesca a conguagliare gli acconti. In questi casi potrebbe ritenersi la natura simulatoria di questo meccanismo retributivo, argomentandosi che l’acconto costituisce in realtà il vero compenso del promotore. Si tratta però di ipotesi border assai rare nella pratica. Nella normalità dei casi, le pattuizioni sugli acconti, spesso inframmezzate ad altre pattuizioni, di stabilità, di bonus, etc., sono ritenute valide dai giudici. La pattuizione tipo è costituita dall’impegno della società a versare acconti da conguagliarsi, a condizione che il promotore rispetti un prestabilito budget di raccolta, da verificarsi normalmente con cadenza semestrale. Gli importi non conguagliati vengono riportati all’anno successivo. Alla cessazione del periodo di incentivazione vengono effettuate trattenute sui compensi a deconto del debito. È frequente che la società rinunci a pretendere il pagamento di queste somme ove sia decorso un determinato periodo di tempo senza che il promotore abbia assunto iniziativa di recesso dal rapporto.

Quale valutazione dà dei cosiddetti minimi garantiti che vengono spesso pattuiti negli allegati economici dei contratti di agenzia?
Questi allegati devono essere letti con molta attenzione e, soprattutto, si deve ogni volta pensare che essi valgono e verranno applicati dalla società per quello che vi è scritto. Innanzitutto è frequente che tali minimi siano soggetti a verifiche periodiche di produttività e che gli importi erogati rimangano definitivamente acquisiti al promotore solo con il decorso di un determinato periodo minimo di stabilità. Occorre poi considerare che l’impegno della società ad erogare un minimo per un certo periodo di tempo spesso non si accompagna con l’impegno della società a non recedere per tutto il periodo incentivato. Si tratta di questioni delicate, la cui soluzione presuppone ogni volta l’esame del testo contrattuale. Quel che è certo è che non di rado chi sottoscrive lettere di impegno recante i minimi dimentica che il rapporto di agenzia instaurato con la società è a tempo indeterminato e, per quanto già detto, discrezionalmente recedibile, anche se durante il periodo incentivato. Salvo che non si sia ‘blindato’ il rapporto con apposito impegno della società a non recedere (fatta salva la giusta causa) fino al termine della incentivazione.

Lei ha richiamato le clausole di stabilità. Come funzionano?
Si tratta dell’impegno che assume il promotore a non recedere dal rapporto di agenzia per un determinato periodo di tempo, fatte salve le ipotesi di giusta causa. Affinché questa pattuizione sia valida è necessario che il promotore tragga qualche vantaggio, dovendo altrimenti ritenersi l’invalidità dell’impegno per mancanza di causa. Teoricamente l’ipotesi di clausola di cui non può dubitarsi quanto a causa è quella reciproca, in cui anche la società si impegna a non sciogliere il rapporto per lo stesso periodo, esclusa la giusta causa. Tali casi (in cui sostanzialmente ci si trova dinanzi a un contratto di agenzia a tempo determinato) sono però assai rari nella prassi, preferendo le società non assumere impegni di tal genere.
Più spesso il vantaggio per il promotore è di ordine retributivo, frequentemente legato, come detto, ad acconti e minimi. Non si richiede che esista proporzionalità tra tale vantaggio e l’impegno che il promotore assume (anche se può dubitarsi della validità di un impegno, poniamo, di dieci-quindici anni, sia pure adeguatamente retribuito). Occorre però che il compenso per il promotore non sia irrisorio o simbolico. È poi frequente che le società rafforzino l’impegno di stabilità a mezzo di apposite penali.

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