Banche giù a colpi di downgrade

Alla fine è arrivata. Era scontata ma finché non fosse stata ufficiale tutti mantenevano, in modo irrazionale, la speranza di cavarsela in qualche modo. La legnata (il downgrade per sette banche e l’outlook negativo per altre otto) non è stata isolata e neppure sarà l’ultima. E altri non stanno meglio di noi. Persino la Cina ha preso qualche misura di sicurezza sospendendo le negoziazioni in cambi con alcune banche francesi. Spesso si dice: mal comune mezzo gaudio ma in realtà i guai dell’uno non rasserenano l’altro. Al contrario, tutti temono un effetto contagio e ognuno si rifugia nel proprio guscio in attesa che si sviluppino eventi positivi. Quali, non si sa. In breve le banche non si prestano e non chiedono soldi tra loro e questo prosciuga il mercato interbancario e di fatto la liquidità del sistema, con la nefasta conseguenza che non si finanziano le imprese industriali e commerciali. Da qui alla recessione e anche peggio il passo è breve, anzi forse non c’è neppure bisogno di un passo: ci siamo già.

A nulla sono valsi i vari quantitative easing e twist della Fed e neppure i contestati acquisti di titoli di stati in difficoltà da parte della Bce. Tutti i quattrini immessi nel sistema non sono entrati nel circuito economico, ma sono rimasti in quello finanziario o peggio hanno solo colmato i buchi di qualche banca. A questo punto, anziché piangere come tanti scolaretti e nascondersi tra le gonne di mamma “Angela”, che non pare poi così tenera, è indispensabile affrontare il problema e cercare di risolverlo. Basta mugugni, improperi, battute contro speculatori e società di rating. Fanno il loro mestiere e forse sono ancora troppo tenere. Gli outlook negativi preludono ad altrettanti declassamenti. Chi di dovere affronti la situazione. Purtroppo, tralasciando i politici, gli amministratori e dirigenti delle banche non sempre appaiono in grado di affrontare una crisi così profonda. Palesemente non ne sono all’altezza. Se lo fossero stati, il declassamento delle banche dopo quello dell’Italia non sarebbe stato così automatico.

Anzi, S&P avrebbe dovuto declassare prima le banche e poi la repubblica italiana. Basti pensare al forte impegno del governatore uscente Draghi per applicare in anticipo i parametri patrimoniali di Basilea 3. Evidentemente teme che sia necessaria una forte patrimonializzazione delle banche per sopportare le perdite su crediti e titoli in arrivo. Il mercato è ancora più drastico e preoccupato: quando si quota, e di parecchio, al di sotto dei mezzi propri e dei valori di libro, significa semplicemente che gli operatori valutano gli asset della banca divorati dalle perdite in arrivo. Inutile perdere tempo a meravigliarsi o a criticare gli operatori. Nessun analista serio consiglia oggi di investire nel comparto bancario, anche se i titoli appaiono sottovalutati. Che fare dunque? Forse un qualche ricambio ai vertici delle banche non sarebbe male. Sarebbe anche bene cessare le battaglie di bandiera o d’orgoglio (sempre un pessimo consigliere). Non c’è alcun bisogno di difendere le quotazioni dell’euro.

Se scendesse a 1,20 o anche alla parità col dollaro, sarebbe solo un grande vantaggio per le esportazioni dell’Europa, dalle nostre a quelle della Germania, ma anche per la Grecia sarebbe un sollievo. Già, la Grecia. Ormai è quasi unanime il giudizio che non si possa salvare, anzi il suo salvataggio rischia di mettere in crisi la stessa Unione Europea. Meglio allora fare buon viso a cattiva sorte e studiare una soluzione praticabile, con dolori e sacrifici, ma concreta, quali un mini default, una dilazione dei pagamenti, qualche intervento che consenta di allungare il brodo nell’amaro calice senza distruggere l’economia ellenica e quella europea. Anche le banche centrali (Fed e Bce) dovrebbero limitare i loro interventi di politica monetaria, ormai la ripresa può venire solo da decisioni di politica economica e non dall’immissione di moneta nel sistema. Intervenga, appunto, chi di dovere.

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