Jp Morgan am, consumatori sull’orlo del precipizio fiscale

Il personaggio di Mr. Muddle e la “sconclusionata” economia americana.

Lo scrittore di libri per bambini britannico Roger Hargreaves ha inventato un personaggio che si chiama Mr. Muddle. Si tratta di un personaggio simpatico ma, come direbbero i bambini, molto pasticcione. Quando cammina, i piedi vanno da una parte mentre la testa è girata da quella opposta, a colazione versa il tè sulle fette biscottate e spalma il burro sulla tavola, e così via. Sebbene numerosi economisti abbiano definito l’attuale ciclo economico americano incerto, zoppicante e tutt’altro che brillante, agli analisti di Jp Morgan Asset Management la recente performance dell’economia americana ricorda da in un certo senso il comportamento di Mr. Muddle: appena un settore (ne citiamo uno, i beni durevoli) inizia ad accelerare, un altro si blocca.

È una dinamica che abbiamo visto ripetersi varie volte nel corso degli ultimi anni e, con crescente frustrazione degli investitori, ogni volta le buone premesse iniziali svaniscono senza che riesca a materializzarsi una ripresa più uniforme. Ad esempio, nella prima fase del ciclo la crescita alimentata dal settore industriale era stata frenata dal drenaggio fiscale insolitamente alto. Negli ultimi mesi, invece, proprio mentre il settore immobiliare aveva iniziato a riprendersi, l’attività manifatturiera globale ha perso vigore. Per quanto concerne i prossimi mesi, anche se al momento il calo dei prezzi petroliferi sta facendo tirare un sospiro di sollievo, i consumatori quest’inverno rischiano di trovarsi di fronte al tanto paventato “precipizio fiscale”.

 Mr. Muddle è in grado di sostenere i mercati emergenti?

Ma come reagiranno i mercati emergenti al contesto macroeconomico corrente, caratterizzato dalla semiparalisi dell’economia europea – in passato uno dei due motori della crescita globale – mentre quella statunitense continua a comportarsi come il pasticcione Mr. Muddle? Dal 2010 in poi, dopo un lungo periodo di robusta crescita i mercati emergenti hanno sottoperformato quelli sviluppati. Da gennaio questa categoria di investimento continua a registrare deflussi netti di capitali, una tendenza che ultimamente si è accentuata, tanto che oggi gli indicatori tecnici sembrano essere entrati in ipervenduto. Anche i parametri valutativi come il rapporto prezzo/valore contabile e prezzo/utili mostrano che le azioni dei mercati emergenti sono estremamente convenienti rispetto alle medie storiche: ai livelli correnti scambiano a 1,5 volte il valore contabile, cioè il 25% in meno rispetto alla media storica di 1,9, mentre il rapporto tra prezzo e utili prospettici di 9,2 è del 41% inferiore alla media storica di 12,7.

Pare gli investitori stiano soppesando l’importanza relativa di due fattori macroeconomici per l’evoluzione futura degli utili nei paesi emergenti: la crescita globale e il rischio bancario e sovrano europeo. Il nostro grafico della settimana segnala che i mercati considerano gli impatti della stagnazione europea troppo gravi perché le economie emergenti, fortemente dipendenti dalle esportazioni, possano superarle, in particolare viste le difficoltà aggiuntive create dalla riduzione della leva finanziaria da parte delle banche europee. Ma questa tesi è confermata dai dati empirici? Le statistiche ci dicono che oggi l’area Euro assorbe circa il 17,5% delle esportazioni dei mercati emergenti, molto meno rispetto al picco del 21% nel 2009. Tuttavia, è necessario operare delle distinzioni nell’interpretazione del dato poiché, in linea con il modello regionale centro-periferia che domina gli scambi globali, le differenze nell’esposizione alla domanda europea tra i vari mercati emergenti sono estremamente marcate.

Mentre i paesi dell’Europa centro-orientale sono particolarmente vulnerabili visto che il 40% delle loro esportazioni è diretto alle economie dell’Eurozona, la quota delle economie dell’America Latina e dell’Asia è molto inferiore, pari al 20% soltanto. Per facilità di confronto basti pensare che le esportazioni complessive dei mercati emergenti agli Stati Uniti rappresentano circa il 17%, mentre gli scambi interregionali, che negli ultimi anni hanno visto una robusta espansione, ora costituiscono quasi il 40% dell’export totale di questi paesi. A causa delle forti differenze nell’esposizione all’Europa, salvo in caso di sostanziale deterioramento delle prospettive di crescita rispetto ai già depressi livelli correnti le economie emergenti dovrebbero nel complesso riuscire a superare questa difficile fase con un modesto guadagno in termini di Pil reale, dell’ordine del 5% annuo.

 Le banche europee riducono la leva finanziaria nei Mercati Emergenti.

 Secondo numerosi analisti nei prossimi anni le banche europee ridurranno il livello di indebitamento di 1,5-2,5 mila miliardi di dollari, il che comporta rischi non certo trascurabili per la crescita dei mercati emergenti. Infatti, visto che il 75% dei prestiti della regione dell’Europa centroorientale proviene da banche europee e la maggior parte (oltre il 75%) di questi è esposto all’impatto della sottocapitalizzazione degli istituti del Vecchio Continente, a livello regionale le economie dell’Europa centrale e orientale sono di gran lunga le più esposte agli effetti del “deleveraging”. La situazione delle economie latinoamericane è meno preoccupante. Nel loro caso il rischio principale riguarda il finanziamento degli scambi globali, visto che le banche francesi, da cui proviene il 25% dei prestiti commerciali in essere, stanno cercando di ridurre la loro dipendenza dal dollaro. Tuttavia, in entrambe le regioni le banche locali e alcuni istituti globali sembrano intenzionati a espandere le proprie quote di mercato.

Al contrario, in Asia la quota maggiore dei prestiti concessi dalle banche europee proviene da Hsbc e Standard Chartered, relativamente meglio capitalizzate. Sebbene sia difficile quantificarne l’impatto, le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine della Bce (Ltro) hanno facilitato il processo di riduzione della leva finanziaria delle banche, consentendo loro di ridimensionare passivamente i propri bilanci, cioè lasciando giungere a scadenza i prestiti nazionali o esteri invece di costringerle a liquidarli precipitosamente (anche nei mercati emergenti). La liquidità aggiuntiva fornita al sistema bancario globale dalle maxi-aste della Bce ha incoraggiato nuovi acquirenti (come banche locali, grandi istituti globali, società di private equity) a farsi avanti, mentre nel contesto di mercato molto più rischioso associato alle svendite in blocco questi sarebbero probabilmente rimasti nelle retrovie.

Alcune banche europee sembrano intenzionate a mantenere la capacità di espandere le attività di credito nei principali mercati emergenti in futuro pur riducendo l’esposizione complessiva al settore. Nell’Europa centro-orientale gli investitori stanno assumendo posizionamenti diversi in mercati come Russia, Turchia e Polonia. Anche le banche locali si stanno facendo avanti per sottrarre quote di mercato alle concorrenti europee: ad esempio Icbc in Cina e Itau in Brasile hanno intensificato l’attività di prestito. Anche se ci aspettiamo che nei prossimi anni la protratta riduzione della leva finanziaria da parte delle banche europee provocherà nuove crisi di liquidità e maggiore volatilità dobbiamo riconoscere che sinora il processo si è dimostrato assai più controllato di quanto noi, come molti altri, avessimo previsto, e l’impatto sulla disponibilità di credito decisamente minore del temuto. A dispetto della negatività delle attese, sembra invece che le attività di intermediazione nei mercati emergenti stiano, malgrado tutto, sopravvivendo alla crisi. 

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