Consulenza un tanto al chilo

Con l’avvento di Mifid 2 uno dei temi dirompenti del mercato è quello dei costi dei servizi di consulenza, questione portata a galla dagli obblighi di trasparenza esplicitati dalla nuova normativa. Lasciando da parte per un attimo le conseguenze pratiche di questa scelta del legislatore (riduzione dei margini, revisione delle strutture commerciali, ecc…), vogliamo oggi riflettere su elemento portante del discorso ma al contempo forse poco approfondito: fermo restando che è giusto pagare la consulenza finanziaria, ma qual è il giusto conquibus?

Per rispondere a questa domanda ci affidiamo al pensiero di Marcello Agnello, direttore commerciale di Assiteca Sim: “Gli operatori del settore finanziario, e forse anche alcuni clienti, avranno certamente sentito e in alcuni casi fatta propria una delle affermazioni più famose di Warren Buffett, riconosciuto come uno dei più grandi investitori di sempre: il prezzo è quello che paghi, il valore è quello che ottieni. Ed è intorno a questa considerazione che si snoda il ragionamento seguente.

Mentre il prezzo di tutto normalmente è noto, il valore attribuito al prezzo pagato cambia da persona a persona: altrimenti, solo per fare un esempio, non si venderebbero auto di lusso ma solo utilitarie. Entrambe soddisfano il bisogno primario di spostarsi da una parte all’altra, ma per alcuni questo non è sufficiente, volendo ottenere (e potendoselo permettere economicamente) altri “valori” come la sicurezza, lo status, il comfort, e così via.

In finanza le cose non sono così lineari poiché gli investimenti finanziari, per natura intangibili, non generano la stessa percezione di un bene concreto e fruibile (auto, casa, quadri, orologi): non si usano, non si abitano, non si guardano né si indossano. E questo a prescindere che siano fatti con la semplice intenzione di accrescere il proprio patrimonio gestendolo al meglio, oppure siano finalizzati a soddisfare obiettivi di vita nell’ambito di una pianificazione accurata”.

E in Italia il ragionamento necessita di un’ulteriore precisazione, prosegue Agnello: “L’investitore italiano, noto per essere scarsamente informato ed “educato” finanziariamente, privilegia investimenti poco rischiosi e guarda con interesse al potenziale rendimento ottenibile. Nei casi più deteriori vorrebbe guadagnare bene e rischiare poco o nulla. Spesso il dibattito sull’importanza del rendimento è acceso, ancor più quando si ragiona in ottica di life planning, e se è vero che puntare esclusivamente a quello rischia di essere pericoloso (soprattutto perché il cliente tende a non rispettare gli orizzonti temporali necessari per raggiungere il rendimento desiderato), è altrettanto vero che non si conoscono clienti che investano per perdere soldi. Sia per l’impalpabilità degli investimenti, sia perché i rendimenti non sono mai certi, la relazione prezzo/valore assume connotati diversi, a cominciare dal fatto che non è affatto dimostrato che a costi superiori corrispondano rendimenti conseguenti. Anzi, se fosse il rendimento l’obiettivo principale perseguito da chi investe, poiché i costi collegati agli investimenti hanno una diretta incidenza sul risultato finale conseguito, i primi venendo sottratti a quest’ultimo restituiscono un rendimento effettivo inferiore a quello di mercato. Una veloce mano di conti renderà immediato il senso. Immaginando l’investimento di 100.000 euro in prodotti di risparmio gestito, che oggi rappresentano la maggior parte dell’offerta degli intermediari bancari e finanziari, e stimando un rendimento ipotetico del 6%, alla fine dell’anno otterremmo un capitale di 106.000 euro: a questo saranno sottratti i costi sostenuti. Calcolando i soli oneri di gestione annui (non considerando perciò eventuali commissioni di ingresso, di collocamento o ancora di tunnel), se questi fossero del 2% il capitale sarebbe aritmeticamente di 104.000 euro con una decurtazione del 33% rispetto al risultato di mercato. Se fossero del 3%, si mangerebbero il 50% del rendimento. Se lo stesso investimento fosse inserito all’interno di una polizza unit linked, altro prodotto in voga sul mercato, i costi arriverebbero facilmente al 4% decurtando così il 66% del rendimento ottenuto”. Insomma, da grandi costi derivano grandi responsabilità: “Come appare evidente, a fronte di costi mediamente elevati la necessità che il mercato restituisca profitti alti diventa fondamentale al fine di assorbire gli oneri, rendendoli più digeribili. In anni di tassi a zero, affinché questo accada è necessario spingere con decisione sui mercati azionari, nella speranza che questi continuino a performare bene ma, nella migliore delle ipotesi, esponendo anche gli investitori a rischi maggiori che storicamente hanno dimostrato di non volersi assumere”.

Tutto ciò porta inevitabilmente verso sentieri pericolosi…come se ne esce e soprattutto qual è il valore che può essere percepito dal cliente a fronte del prezzo pagato? Agnello conclude così, lasciando aperto un ulteriore spunto di riflessione: “Oggi si parla molto di pianificazione finanziaria e di consulenza patrimoniale, in un approccio olistico alla ricchezza del cliente che aiuterebbe a spostare l’attenzione dal solo rendimento inseguito sui mercati. È corretto, perché la stessa figura professionale del consulente deve evolvere in altro rispetto a ciò che è sempre stato. Rimane un fatto difficilmente confutabile, in attesa che i clienti maturino una consapevolezza diversa rispetto alla gestione del loro patrimonio; commissioni elevate erodono i rendimenti finali, allontanano dalla percezione individuale di un valore intrinseco e non agevolano il percorso di educazione finanziaria. Se per acquistare semplicemente fondi o polizze possono arrivare a pagare fino al 4%, quanto dovrebbero pagare una consulenza a tutto tondo?.

 

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