Consulenti, i segreti di un giovane talento Widiba

Voce squillante, testa piena di idee. Leonardo Nistri (nella foto), 31 anni, è uno dei rari esemplari di consulente che riesce ad abbinare il successo alla giovane età. Almeno se parliamo dell’Italia, dove l’età media della categoria è di 50 anni. “Perché faccio questo lavoro? L’imprinting al mestiere me lo ha dato il film Fight Club, dove si parla di combattimenti, ma anche di mercati finanziari”. Leonardo è uno dei giovani talenti della rete di Widiba, gruppo Mps, e opera nella zona di Firenze. “Non sono un figlio d’arte”, spiega a BLUERATING, “però sono figlio di due avvocati che si occupano di tutela patrimoniale”.

Perché i giovani faticano in questo lavoro?
Tutta una questione di barriere all’ingresso. La prima è commerciale: è difficile che i giovani vengano messi a lavorare su masse preesistenti. Un neo laureato che inizia a fare questo mestiere o ha la fortuna di stringere le mani giuste, o è ricco di famiglia, oppure rischia di fare la fame in attesa che il sistema inizi a pensare a un ricambio generazionale. E, per ora, non ci siamo neanche vicini: nell’era post Mifid 2, il pensiero delle reti è consolidare le masse reclutando i consulenti senior.

Cosa aiuterebbe a favorire l’ingresso dei giovani?
Bisognerebbe prevedere un periodo di formazione di 3-5 anni, nei quali il giovane consulente percepisce un compenso fisso e viene affiancato da un consulente senior che, quando andrà in pensione, gli lascerà poi in gestione le sue masse.

Ci sono altre barriere?
Sì, ed è costituita dalle competenze tecniche. Al giorno d’oggi, è complesso entrare nella professione senza avere alle spalle un solido bagaglio di preparazione.

Che consiglio può dare?
Il vero talento di un consulente è non avere talento: non bisogna fare scommesse o previsioni. Non bisogna sostituirsi ai gestori, ma aiutare i clienti a beneficiare delle occasioni che offre il mercato.

C’è altro?
Un giovane come me, se vuole lavorare, deve fare masse: significa creare contatti, ed è difficile farlo attraverso le telefonate. Meglio concentrare le risorse sui progetti di interscambio con studi legali o uffici commerciali. Per esempio: uno studio legale vuole aprire uno sportello tributario e tu, consulente, lo aiuti a prendere contatto con i clienti. E poi, in futuro, potrai occuparti del welfare aziendale ed entrare in contatto con le linee manageriali. Però ci vuole tempo. Personalmente ho dedicato risorse a un progetto negli ultimi due anni: ebbene, solo di recente sono riuscito ad acquisire un cliente private.

Dove si vede fra 20 anni?
Mi vedo ancora consulente finanziario. Chi fa questo lavoro è difficile che abbia in mente una scalata. Chi nasce consulente muore consulente. Questo perché sei indipendente, sei il capo di te stesso, e l’azienda per cui lavori non è altro che un partner: il consulente è lo chef e la società gli fornisce la cucina e i fornelli.

Cosa vorresti cambiare del mondo della consulenza finanziaria?
Il mio modello di riferimento è quello americano, dove non si nasconde con la relazione la mancanza di competenza. In Italia bisogna cambiare la mentalità dei consulenti, eliminare i conflitti d’interesse, cambiare i rapporti con le case d’investimento e aggiornare le piattaforme di robo advisory, a mio avviso obsolete. E poi c’è il tema della remunerazione: sarebbe auspicabile che i consulenti venissero pagati con parcelle orarie. Si deve pagare il servizio, non il prodotto.

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