Reti e consulenti, dopo la fase 1 è arrivato il momento delle pagelle

La finanza trema, i mercati sobbalzano. L’impeto virulento del Covid-19 ha gettato nello sconforto anche gli economisti più ottimisti, mentre il mondo produttivo cerca di non annegare sotto l’acqua di una tempesta la cui durata è ignota.

Eppure, se solo proverete a guardarvi intorno senza che la pioggia vi confonda la vista, troverete alcune figure che sembrano osservare senza paura la furia della natura. Sono i consulenti finanziari e le loro reti, esempio mirabile di resilienza in un momento nel quale quasi tutti sembrano arrancare.

Già perché il mondo dell’advisory italiano, dati Assoreti alla mano, sembra invincibile. A dirlo sono gli oltre 8 miliardi euro di afflussi netti tra febbraio e marzo, i due mesi che hanno visto l’esplosione della pandemia su scala mondiale, numeri ai quali si aggiungeranno i dati positivi relativi ad aprile e già anticipati dalle principali reti nostrane. Certo, se andiamo ad analizzare la “qualità” degli apporti è inevitabile ricondurre questi risultati a quanto fatto sul fronte dell’amministrato (quasi 9 miliardi tra febbraio e marzo), ma sarebbe sicuramente sbagliato non considerare il logico processo di riallocazione del risparmio dell’investitore medio italiano, tipicamente avverso al rischio. Il patrimonio del sistema ha tenuto, nonostante gli inevitabili ridimensionamenti degli attivi; a fine marzo la valorizzazione dei prodotti finanziari distribuiti dai consulenti è pari a 570,5 miliardi di euro, attestandosi sui livelli di marzo 2019 e registrando una flessione dell’8% rispetto al mese di dicembre. Se andiamo però a confrontare questa discesa con il contestuale calo del principale indice italiano, cioè il Ftse Mib, pari nel dettaglio a quasi il 30%, ecco emergere nuovamente la solidità del settore. Laddove i dati Assoreti non bastassero, a mostrare ancora una volta la forza degli operatori della consulenza finanziaria italiana sono i primi dati trimestrali 2020 delle reti quotate, cioè Azimut, Banca Generali, Banca Mediolanum e Fineco. Fa eccezione Fideuram ISPB, che non è quotata in borsa e che, tra gennaio e marzo, ha registrato una raccolta di 2,7 miliardi di euro (+167% sullo stesso periodo del 2019), accompagnata da commissioni nette di 427 milioni (+2 milioni su base annua) e un utile netto di 222 milioni, in contrazione del 3% rispetto al primo trimestre del 2019.

Conti in ordine
Per Azimut, i profitti resistono se pur in calo (59,2 milioni di utile normalizzato rispetto ai 90,9 milioni del primo trimestre 2019), con la società che ha mandato tranquillamente in pagamento la cedola di 1 euro per azione con un dividend yield del 6,5%. I primi tre mesi dell’anno di Banca Generali hanno registrato un utile netto di 79,1 milioni, in crescita del 19% rispetto all’esercizio precedente: si tratta della migliore partenza dal 2015 e la seconda migliore di sempre nella storia della banca. Spostandoci sui risultati di Banca Mediolanum al 31 marzo vediamo un utile netto di 72,2 milioni, in linea con lo stesso periodo del 2019 (72,1 milioni, n.d.r.) nonostante la crisi sanitaria. Sullo sfondo, la società ha chiuso il primo trimestre del 2020 con una raccolta netta totale pari a quasi 3,3 miliardi di euro, quasi tre volte superiore rispetto agli 1,1 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno. Completa l’affresco Fineco, che ha chiuso il trimestre con un utile netto rettificato di 92,2 milioni di euro, in crescita del 45,4% rispetto ai 62,6 milioni del corrispondente periodo del 2019, con l’a.d. Alessandro Foti che ha sottolineato che “i risultati estremamente positivi realizzati nei primi tre mesi dell’anno mostrano l’efficacia del modello di business”. Aggiungendo a questi numeri le valutazioni contenute nell’ultimo report di analisi del settore a cura di Gian Luca Ferrari di Mediobanca, uscito successivamente ai dati di bilancio, Azimut mantiene salde le previsioni per i propri Eps (utili per azione) per il periodo 2021-2022, mentre vengono corrette al ribasso (3%) quelle relative al 2020. Banca Generali vede crescere del 3% la propria valutazione relativa all’Eps 2020-2021, mentre per Banca Mediolanum la correzione al rialzo per il medesimo periodo è addirittura del 5%. Infine Fineco vede aumentare del 5% la stima per l’Eps 2020, mentre quella relativa al 2021 scende del 3%. Alla luce delle sopracitate evidenze sulla raccolta e sui bilanci, la buona salute del settore della consulenza finanziaria italiana appare quindi ancora una volta lapalissiana anche per gli stessi esperti del settore, come sottolinea a BLUERATING Massimo Arrighi, partner di AT Kearney, società statunitense specializzata nella consulenza strategica: “Le reti di consulenti finanziari hanno dimostrato ancora una volta la loro forte capacità di relazione con la clientela, anche nei momenti di maggiore difficoltà dei mercati. La raccolta netta ha continuato a crescere, anche perché le famiglie hanno avuto meno occasione di spendere durante il lockdown. Il posizionamento dei nuovi flussi sull’amministrato mostra un atteggiamento prudente, da fieno in cascina, in attesa di capire meglio i trend di ripresa dell’economia reale e dei mercati, così da poter cogliere le migliori opportunità per i propri clienti. In generale, i risultati delle trimestrali delle banche-reti sono stati tutti molto positivi, trainati dalle masse raccolte in precedenza e ancora con limitato impatto della caduta dei mercati finanziari. Il primo bilancio nella fase 2 sembra indicare nel complesso un panorama del risparmio resiliente e in grado di conservare performance sopra la media”.

Non abbassare la guardia
Se dopo la prova di forza del Covid-19 il settore può sentirsi quindi galvanizzato, occhio però a non abbassare la guardia. Perché proprio dopo questa imprevedibile emergenza, probabilmente il mercato non sarà più lo stesso, come sottolinea stesso Arrighi “già prima del lockdown molti operatori del settore avevano implementato nuove modalità di interazione con i clienti da remoto e in digitale. Oggi chi non lo aveva ancora fatto, ha capito che è la strada da percorrere. Va da sé che chi aveva già in passato sperimentato modelli di interazione più avanzati, che consentano di operare in modo completo anche via web o app, gode oggi di un vantaggio competitivo maggiore. Ma, come in ogni processo di evoluzione, sono la gradualità e il giusto equilibrio a fornire il mix corretto. Abbiamo rilevato infatti che, se da un lato il 60% degli italiani considera il passaggio a un servizio sempre più digitalizzato un’evoluzione necessaria, restano problemi su un modello totalmente digitalizzato e sono legati all’indebolimento delle relazioni umane. D’altro canto, le capacità di metabolizzazione di un servizio digitale non possono essere le stesse per tutti i segmenti di clientela. Sarà dunque la giusta combinazione tra digitale e rapporti fisici a fornire la migliore offerta”.

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