Consulenza, quando un cognome ti condanna

Padre e figlio. Stesso cognome (e a quanto pare anche stesso nome) ma due vite completamente diverse.

Quella che vi vogliamo raccontare oggi è la storia di Harry Abrahamsen, fondatore di Abrahamsen Financial Group, un veterano del settore della consulenza finanziaria da 27 anni che Goldline Research ha definito “uno dei gestori patrimoniali più affidabili del Mid-Atlantic”, come riportato dal magazine Forbes (così viene indicato sul suo profilo Linkedin).

Ma a partire dal 2011 la sua vita è stata in parte stravolta a causa dei problemi legali del padre, che è stato ritenuto colpevole di aver nascosto più di 1 milione di dollari in conti bancari svizzeri, condannato a tre anni di libertà vigilata e multato di oltre 900.000 dollari, così come si legge nell’intervista fatta da ThinkAdvisor.

Abrahamsen (il figlio), ha ribadito più volte di essere completamente estraneo alle azioni del padre, ma ad ogni modo “quando i potenziali consulenti cercano il suo nome e trovano notizie sui misfatti del padre, molti attribuiscono tali fatti a lui” o comunque è possibile pensare che lo possano ritenere in qualche modo complice.

Il consulente ha provato più volte a chiedere al Dipartimento di Giustizia di rimuovere dal web il comunicato stampa che annunciava la condanna di suo padre, ma si è visto rispondere che lo avrebbero fatto se avesse pagato una parte della multa.

Ora noi non sappiamo davvero come siano andate le cose e non siamo nemmeno la sede per fare congetture o considerazioni in merito, ma una riflessione è d’obbligo. Quante volte ci siamo sentiti attibuire colpe, errori, aggettivi negativi solo perché qualcuno a noi vicino o facente la nostra stessa professione ha commesso negligenze e falli vari. E allora quanto è giusto che determinate notizie (magari anche riportate in modo superficiale) rimagano, talvolta per anche per anni, sul web dove chiunque può leggerle e arrivare a conclusioni sbagliate? Diritto d’informazione, certo. Ma allora come può essere protetto il diritto alla propria reputazione e a quello della propria professione? Ai posteri, l’ardua sentenza.

 

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