Consulenti: la gloria del passato e i drammi del presente

Pubblichiamo di seguito una lettera inviataci da un nostro lettore in merito all’articolo Mandanti indigeste e consulenti in crisi, la soluzione è dietro l’angolo. Vi ricordiamo che potete sempre mandarci le vostre riflessioni su [email protected]. Saremo lieti di pubblicarle.

Ho letto con attenzione l’articolo “Mandanti indigeste e consulenti in crisi, la soluzione è dietro l’angolo” che riprende alcuni interventi in merito all’attività di consulente finanziario apparsi su precedenti edizioni di Bluerating.

Ai colleghi che lamentavano forte disagio, delusione ed anche rabbia per l’opprimente ambiente lavorativo in cui operavano – e, si badi bene, non certo per l’attività professionale di consulente finanziario, di cui si dichiaravano molto soddisfatti -, sono stati riportati come risposta alcuni interventi che avrebbero dovuto quantomeno cercare di ovviare al malessere evidenziato con suggerimenti ed osservazioni costruttive.

Innanzitutto, dividerei tra chi ha cercato di fornire una sincera e personale soluzione, provando – come viene riferito nel vostro stesso articolo – “un sentimento di empatia, ma finalizzato a una rivalutazione positiva del proprio lavoro” e “che propone pragmaticamente un approccio diverso alla professione”, parlando della consulenza fee only, e chi, mi sembra, abbia colto l’occasione semplicemente per celebrare il proprio passato.

Sia ben chiaro che provo il massimo rispetto e considerazione per chi ha partecipato a porre le basi per la nascita e lo sviluppo di questa “magnifica professione”.

Se però vogliamo andare oltre ad una pura e semplice celebrazione della professione e della sua genesi, il cui fondamentale contributo per traghettare gli italiani da semplici bot people a investitori mi pare nessuno abbia messo in dubbio, penso che la difesa della categoria degli allora “promotori” possa risultare ben più credibile se insieme ai pregi vengano anche segnalati gli errori ed – in qualche caso – gli eccessi che sono stati compiuti durante il percorso di crescita della professione.

Nel riconoscere il contributo al grande salto di qualità nel concepire la finanza, forse sarebbe anche più attendibile se non ci si incaponisse a parlare di consulenza o vendita della consulenza quando negli anni Ottanta si disponeva di soli due Fondi: il concetto mi sembra piuttosto azzardato.

Vorrei far notare, inoltre, che i colleghi non hanno messo in discussione la professione, ma piuttosto come venga spesso mortificata da costrizioni imposte proprio da quelle Società in cui operano, i cui obiettivi risultano spesso in contrasto e di impedimento con la possibilità di offrire una consapevole, equilibrata e professionale consulenza.

Decisamente bizzarre le soluzioni prospettate e suggerite dai colleghi “storici”.

Da una parte, dopo una acritica autocelebrazione, abbiamo una esortazione a “sopravvivere”, nel lavoro così come nella vita. Dall’altra, dopo aver ancora ribadito la magnificenza della professione – d’altronde mai messa in dubbio dai colleghi in crisi -, viene proposto il saggio consiglio di cambiare società se ci si trova in difficoltà, perché cambiare fa bene, concludendo con un esaltante “non vince chi fugge”.

Come se ad una persona che sta per buttarsi giù dal cornicione di un palazzo si cerchi di salvarla con una pacca sulle spalle dicendo “dai, che la vita è bella!”.

Ma tutto questo non stupisce, perché questi consigli ed esortazioni sembrano essere figlie di un mondo e di un atteggiamento ancora saldamente ancorato alle gloriose origini, che fa molta fatica ad evolversi, espressione di una logica fortemente subordinata all’aspetto “commerciale” che ha sempre condizionato – allora come ancora oggi – i comportamenti del settore, dove il bravo e corretto consulente è quello che riesce a “mediare” tra gli interessi della società e quelli del cliente.

È soprattutto un problema di sistema: fino a quando ci si muoverà in un tale contesto, dove tutto ruota intorno al raggiungimento dei target di vendita di prodotti richiesti dalle società e del coefficiente di produttività (ovvero il margine di utile prodotto dal consulente, ulteriore incentivo a collocare i prodotti più costosi), con la consulenza intesa come un prodotto a listino, le cose non cambieranno e prevarrà la logica commerciale a scapito di quella consulenziale.

Con tali premesse, diventano del tutto comprensibili e logici i consigli dei “consulenti storici” ed anche le affermazioni del collega che ha inviato il commento “Storia di un consulente che amava le pressioni commerciali”.

Si muovono e ragionano coerentemente in un siffatto contesto.

Comunque, tengo a ribadire che, nonostante la difficile condizione lavorativa sopra riportata e con tutte le avversità e le limitazioni di carattere sistemico, vi sono e conosco parecchi colleghi che agiscono e lavorano con grande professionalità e riescono a portare avanti proficui e qualificati progetti consulenziali con i propri clienti.

Con molti di loro ho in corso un interessante e stimolante confronto sul futuro della professione e sulle scelte personali.

La mia scelta personale, aderendo alla consulenza fee only, è stata quella di uscire una volta per tutte da tali dinamiche ed entrare in un mondo dove si viene valutati per la qualità e non per la quantità del risultato, dove non ci sia un manager che controlla i miei obiettivi di vendita e di raccolta, ma un cliente, questo sì, che mi giudichi per quanto riesco a fare in suo favore.

Dove, al pari di ogni altro professionista, il guadagno non deriva dalla vendita di prodotti (tassativamente vietata, pena la radiazione dall’albo) ma sarà proporzionato alla mia competenza ed alla capacità di fornire un servizio effettivamente utile ed apprezzato.

La parcella, unica mia entrata, infatti, è concordata in anticipo, in modo chiaro e trasparente, col cliente stesso e sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà la mia credibilità.

Da quanto maturato con l’esperienza personale vissuta nelle due realtà (ho preso l’abilitazione a metà degli anni ’90), penso di poter affermare con cognizione di causa che stiamo parlando di un altro mondo, di una nuova attività, diversa dalla precedente e che non tutti i consulenti “tradizionali” sono in grado di approcciare, non tanto per questioni tecniche – non mi permetterei mai -, ma per una sorta di autolimitazione, ovvero mancanza di volontà di modificare il proprio metodo di lavoro, mettersi in discussione ed osare un triplo salto mentale e culturale, uscendo dalla propria “confort zone”.

Non a caso, proprio chi ha ottenuto i maggiori successi e soddisfazioni in passato, i cosiddetti “grandi produttori”, avrà maggiore difficoltà (e desiderio) di reinventarsi ed accettare di iniziare da capo.

E sono proprio loro, rassicurati dal loro successo e granitici nelle loro convinzioni, i più strenui difensori dell’ancien regime e critici delle novità sancite dalla MIFID.

Ripeto, stiamo parlando di un nuovo lavoro, di passare da consulenza di prodotto e dell’esperto alla “consulenza di processo” ben definita da Edgar H. Schein.

E senza la profonda conoscenza di entrambe le realtà, penso risulti difficile e azzardato per chiunque fare paragoni: si andrebbe a esprimere giudizi su ciò che si pensa “possa essere”, e non su ciò che in effetti “è”.

Il grande e rivoluzionario contributo che la MIFID ha dato al mercato finanziario è stato quello di offrire finalmente ai risparmiatori la possibilità di potersi rivolgere ad una “figura terza”, un consulente indipendente completamente estraneo al sistema Bancario dominante e non più condizionato dal conflitto di interessi, per gestire il proprio patrimonio.

Fino a poco tempo fa, per il cliente non esistevano alternative.

Oggi sì.

*Nota.

Rifacendoci al lavoro teorico sulla consulenza svolto dal professore del MIT Edgar H. Schein, si possono identificare, in ordine crescente per completezza e maturità, tre modelli base di consulenza:

  • La consulenza del venditore. Il consulente propone al cliente una soluzione preconfezionata magari tratta da un ventaglio di possibilità adattandole alle richieste del cliente
  • La consulenza dell’esperto. È il modello “medico-paziente”, nella terminologia di Schein. Il consulente fa una diagnosi e propone la cura al cliente.
  • La consulenza di processo. La soluzione del problema nasce dall’interazione fra consulente e cliente all’interno di un processo gestito dal consulente: il consulente aiuta il cliente ad aiutare se stesso.

direi che, mentre il primo punto (consulenza del venditore) è stata la caratteristica dominante del periodo pionieristico della professione, attualmente la maggior parte dei consulenti è fermo al secondo punto, quello del “consulente dell’esperto o dell’analista”, tipico di chi “ha la soluzione”, di chi conosce determinate nozioni e le mette a disposizione del cliente. Il ruolo del cliente è quello di definire il problema, il ruolo del consulente quello di risolverlo.

La “consulenza di processo” per la maggior parte oggi è ancora una chimera.

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