Consulenti: clienti accumulatori e come affrontarli

Il discorso più ricorrente di questi tempi è quasi sempre lo stesso, monotono. «Lei perché lascia sul conto corrente 100mila euro?», chiedo a un cliente. «Perché potrei averne bisogno». Poi le motivazioni sono le più diverse, l’acquisto di una casa (che da anni non sembra trovarsi, e non si capisce come sia possibile che il mercato immobiliare non riesca mai a soddisfare la domanda personale) o una spesa improvvisa, di che natura non si sa. Ma soprattutto non si capisce come mai il conto corrente venga sempre (avverbio voluto, perché è da sempre così ai nostri tavoli di consulenza) visto come la fonte per i bisogni, mentre i capitali investiti, o addirittura messi a reddito, debbano rimanere dei quadri appesi in eterno alla parete, a rappresentare un possesso distintivo da salvaguardare, cui si debba assolutamente evitare di attingere. Tralascio di argomentare con i difensori del cliente (ci sono anche tra i consulenti!), che mi risponderebbero che ha ragione, perché potrebbe perdere investendo, e allora è giusto che li tenga lì come si dice… a vista. Il punto è un altro.

«Ma scusi», riprendo, «se le capita una spesa, nel piano che abbiamo condiviso vi è spazio per attingere al suo capitale investito, anzi lei già ora potrebbe approfittare dei guadagni…». Niente da fare. Parole al vento. L’investitore, sempre più ultimamente, tende a identificare nel suo investimento un traguardo raggiunto, un’icona quasi intangibile, da salvaguardare, a fronte della quale invece le somme riversate sul conto corrente sarebbero le risorse da utilizzare sempre. O meglio, mi correggo, anch’esse alla fine… mai. Perché nella visione di costoro anche il conto corrente in ultima istanza rimane, o dovrebbe assolutamente rimanere, lì fermo, intoccabile. E allora sarà inutile citare le perdite riferite all’effetto inflazione di fronte a questa “identità” di investitore, perché non sarebbe pronto a concepire mentalmente la perdita secca del capitale depositato sul conto; un conto che invece verrebbe visto come sempre uguale a se stesso, e proprio in tale sua immobilità, come ulteriore conferma e sigillo di un patrimonio accumulato. In investitori siffatti sembra di poter riconoscere traccia della dimensione di cui parlava il sociologo Thorstein Veblen, che all’alba del ‘900, riferendosi ai nuovi ricchi della borghesia americana, individuava tra essi una sorta di gara per la rispettabilità finanziaria, che si sarebbe raggiunta tanto più quanto più si sarebbe stati in grado di accumulare ricchezza.

Non sto divagando. Chi di noi non si è imbattuto in clienti detentori di patrimoni, ora li chiamo così, come quello che vi ho descritto? Che si parli di conto, di titoli, o di immobili, si ha comunque a che fare con persone attentissime a non perdere pezzi di questo immenso puzzle, per cui il già raggiunto, il conseguito, insomma il totale dell’asset di riferimento non andrebbe assolutamente toccato ma solo, semmai, aumentato. Punto e basta. Una risposta tipica di questi tempi è: «Quello che ho oggi deve rimanere così, quello che vede sul conto non voglio toccarlo. Voglio vivere con la pensione, della pensione». E dietro questo discorso magari non ci sono orientamenti di pianificazione successoria, perché non ci sono figli o coniugi o conviventi cui si stia pensando. Si sta solo parlando di sé. Questi clienti parlano dei loro patrimoni identificandosi in essi, al punto che perderne un pezzo, smembrarne un frammento equivarrebbe a smarrire un pezzo della loro identità. Ed ecco perché con costoro, che sono poi i destinatari dei nostri appuntamenti mission impossible, diventa difficile parlare di quanto si ostinano a lasciare sul conto corrente.

Eppure il cliente che noi consulenti vorremmo convincere a distrarre importi da queste solidissime basi per travasarle su proposte di investimento, guarda caso, spesso non è affatto l’investitore medio, chi ha una piccola somma e vuole tenere qualcosa di immediatamente disponibile perché davvero potrebbe averne bisogno per i figli o per le emergenze. No. Chi lascia 100mila, 200mila euro e anche di più sul conto è chi in qualche modo riconosce nel patrimonio una sua dimensione da salvaguardare. Una vera e propria distinzione. Che magari oggi non ha nulla a che vedere con una distinzione sociale, come era negli intenti della classe borghese ai tempi della teoria della classe agiata di Veblen. E tuttavia, quella dimensione, o meglio quella distinzione grazie al patrimonio, rimane ed è divenuta tutt’uno con questa tipologia di investitore. Per questo, un tale investitore non accetterà di attingere alla quota lasciata sul conto corrente, non perché non esista sul mercato una proposta appetibile e adatta a lui, ma piuttosto perché per lui, per quella immagine di sé che si è costruito grazie a quel patrimonio, non ha senso nessuna proposta che possa mettere in crisi o almeno rompere proprio quella stessa immagine. Non mi stupisce dunque che questo genere di investitore, all’antica direbbero molti, sia alquanto restio a seguire il nuovo e sempre più emergente ritornello della nuova era degli investimenti, che sollecita o almeno suggerisce di spogliarsi del possesso del bene per orientarsi piuttosto al semplice utilizzo o diritto su di esso.

Un invito introdotto dal mondo delle cripto, e manifesto in crescendo nel mondo degli NFT. Un mio cliente di oltre ottant’anni mi ha detto: «Che ricchezza è avere dei token?» Eccolo! Lui, che da otto anni lascia sul conto 100mila euro dicendomi sempre la stessa cosa («sono garantiti dal fondo interbancario, quelli li lasciamo lì»). Come dire: nel mio disegno, nel mio mondo quei 100mila euro non si toccano, non possono essere messi altrove. Qui non ci sono piani finanziari, e ancora meno prodotti (bancari, abbandonate le armi dei collocamenti innumerevoli creati e confezionati per togliere liquidità da conti di titolari così!), di fronte a un protagonista del mondo della consulenza come questo. Lo chiamo così e non investitore non a caso, perché rimango convinta che l’investitore debba stare invece sempre da un’altra parte, dalla parte del mondo globale economico, in cui il rischio diventa opportunità di incassare un premio. Un’opportunità che è da cogliere sempre, come alternativa valida a quella che oggi sembra essere quasi una certezza: perdere fino al 18% lasciando somme sull’amatissimo conto corrente.

Ma dobbiamo saperlo: questa proposta è davvero solo per investitori, non per detentori di patrimoni.

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