Banche, la mappa del potere dei fondi

Dagli anni Novanta, le banche italiane sono andate incontro a un mutamento delle geometrie proprietarie che ha visto le Fondazioni ridurre via via il proprio peso per consegnare le chiavi del potere ai grandi fondi internazionali. Come riportato da Affari e Finanza, Unicredit ne è la dimostrazione plastica. Ancora nel primo decennio del nuovo millennio, e orientativamente fino alla crisi della Lehman Brothers, quando la banca era capitanata da Alessandro Profumo, Cariverona, con oltre il 9% del capitale, e Fondazione Crt sapevano fare sentire forte e chiara la loro voce nelle scelte del gruppo. Oggi, complici anche gli aumenti di capitale miliardari dell’ultimo decennio, gli enti scaligero e torinese sono retrocessi nella classifica dei grandi soci, rispettivamente all’1,5% e all’1,7% dell’istituto guidato da Andrea Orcel. A scalzarli, stando al verbale dell’assemblea dell’8 aprile, sono gruppi internazionali come quello del risparmio gestito Vanguard, al 3,7% di Unicredit, oltre che la società di Etf iShares e il governo della Norvegia (Government of Norway), con il 2,5% a testa. Appaiono fortemente ridimensionati anche due ex pesi massimi dell’azionariato come il fondo sovrano degli Emirati Arabi Mubadala Investment Company, sceso al 2% tramite il veicolo Atic, e la Banca centrale della Libia. Quest’ultima oggi possiede lo 0,8% di Unicredit: sono passati ben 12 anni da quando la crescita del peso dell’ala libica contribuì a innescare una deflagrazione che, passando dalle Fondazioni e da Verona in particolare, spinse Profumo all’uscita.

A ogni modo, in cima alla lista dei proprietari compaiono i grandi fondi di investimento, le partecipazioni dei quali – va sottolineato – potrebbero essere ben più rotonde perché alcuni loro veicoli potrebbero avere disertato l’assise. È poi possibile che abbiano presenziato all’evento soggetti di un gruppo non immediatamente riconducibili allo stesso. Un altro limite del verbale assembleare è che fornisce un’istantanea che potrebbe essere superata. In effetti, dal documento risulta ancora al 2,5% Parvus Asset Management di Edoardo Mercadante. Ma proprio nei giorni scorsi il fondo, salito alla ribalta due anni fa nella contesa tra Intesa Sanpaolo e Ubi Banca, ha annunciato di avere raggiunto il 5,06% di Unicredit comprando azioni all’inizio di maggio. Risalgono allo stesso periodo le vendite di Capital Research che, nell’ambito di una generale strategia di dismissione di titoli bancari europei, è scesa dal 6,8 a poco più del 3,9% dell’istituto di Piazza Gae Aulenti.

Capital Group, secondo Il Sole 24 ore, avrebbe altresì approfittato per ridimensionare la propria presenza in Banco Bpm e in Intesa. Anche nella banca guidata da Giuseppe Castagna, in base al verbale dell’assemblea del 7 aprile, i gruppi internazionali sembrano contare sempre più: lasciando stare Capital Research (ancora al 4,99% stando al sito di Banco Bpm), Adar Macro Fund ha in portafoglio il 4,95%, Davide Leone & Partners il 4,7%, Vanguard il 3,3% e il governo della Norvegia è al 2,83% del capitale. Tra gli italiani, l’Enpam, la cassa previdenziale dei medici, ha preso parte all’assise con il suo 1,95%, collocato alla guida di un mini patto di consultazione al quale aderiscono diverse Fondazioni, tra cui Crt (1,8%) e Carilucca (1,24). Poco dopo l’assemblea, si è scoperto che la banca francese Crédit Agricole è salita al 9,18% della ex Popolare di Milano, con un blitz che potrebbe riservare sorprese.

A ben vedere, è Intesa l’unica roccaforte in cui le Fondazioni resistono in cima alla lista dei soci. Nel gruppo guidato da Carlo Messina, la Compagnia di San Paolo è sempre la prima azionista al 6,12%, seguita dal 5% in mano al fondo Blackrock e dal 3,95% dell’ente milanese Cariplo. Di più: tra coloro che hanno preso parte all’assemblea del 29 aprile, spicca un “sottobosco” di Fondazioni con quote di tutto rispetto, da Cariparo (1,8%) e Cr Firenze (1,7%), passando per l’1,3% di Carisbo. Mentre tra i grandi gruppi internazionali, si segnalano i “soliti” Vanguard (3,5%), iShares (3,4%) e Government of Norway (1,3%), ma anche “outsider” come il gruppo del risparmio gestito Oakmark, all’1,8% di Intesa.

Nella recente partita sulle Generali, è stato grazie al voto determinante di fondi e grandi investitori come Vanguard (in assemblea con oltre il 2,5% del capitale del Leone alato), iShares (oltre 1,6%) e Government of Norway (1,12%) che l’ad Philippe Donnet è stato riconfermato, con il sostegno di Mediobanca. Non è, invece, andato a buon fine il ribaltone tentato dagli azionisti ribelli Francesco Gaetano Caltagirone, Leonardo Del Vecchio e Fondazione Crt, sostenuti dalla famiglia Benetton e dalla Cassa forense. Probabilmente più concentrato sulle Generali, Del Vecchio con la sua cassaforte lussemburghese Delfin non ha preso parte all’assemblea di Unicredit, di cui è accreditato di meno del 2 per cento. Si dice invece che, poco più di un anno fa, abbia contribuito alla nomina dell’ad Orcel, insieme alle Fondazioni Cariverona (che già avrebbe voluto Orcel al posto di Profumo nel 2010) e Crt. Sì, perché nella scelta dei ruoli apicali gli enti possono ancora giocare un ruolo chiave. Fermo restando che la decisione passa poi dalle “forche caudine” dei grandi fondi in assemblea.

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