Azimut, ecco la view su tassi, inflazione e mercati

Vi proponiamo la Azimut Global View della settimana dal titolo “Godiamoci la festa finché dura”, prodotta dal Global team di Azimut che riporta e analizza le tematiche attuali su tassi d’interesse, inflazione e mercati azionari fornendo un’approfondita prospettiva di investimento.

Ci siamo finalmente lasciati alle spalle un anno davvero orribile. Il modo migliore per illustrarlo è il grafico sottostante di Deutsche Bank: nei 150 anni di storia dei mercati finanziari statunitensi (una serie temporale così lunga è disponibile solo per gli Stati Uniti) non si è mai verificato che azioni e obbligazioni perdessero più del 10% nello stesso anno solare. Per essere più precisi, la performance delle due asset class è stata più vicina al -20% che al -10%. Le criptovalute hanno subìto correzioni ancora più profonde. Solo le materie prime sono riuscite a chiudere l’anno appena in positivo, ma con cali superiori al 20% rispetto ai massimi raggiunti poco dopo l’invasione dell’Ucraina. Non c’era quindi nessuna valida alternativa.

L’inizio del nuovo anno è stato più promettente grazie ad una serie di fattori. Gli investitori aumentano spesso l’esposizione del portafoglio all’inizio di un nuovo anno perché, di solito, gli anni che terminano con correzioni significative sono seguiti da anni con performance positive. Inoltre, i tassi d’interesse sono tornati ai livelli più alti da oltre un decennio, quindi la speranza di ottenere rendimenti positivi dalla componente fixed income è reale (per un solo giorno, il 4 gennaio 2023, non ci sono state più obbligazioni a rendimento negativo, mentre solo due anni prima ce n’erano in circolazione per ben 18.000 miliardi di dollari). Inoltre, la condizione di estremo ipervenduto in cui si trovavano molte asset class ha favorito un rimbalzo. Il catalizzatore che ha innescato il rimbalzo è stato il dato europeo straordinariamente favorevole sull’inflazione, scesa di quasi un punto percentuale a +9,2% su base annua. Il calo dell’inflazione è stato indubbiamente favorito dalla diminuzione dei prezzi del gas, che dopo aver raggiunto i 350 euro per MWh in estate sono tornati a 70 euro per MWh (con un calo dell’80% da allora). Ciò è stato reso possibile da un inverno particolarmente mite, tanto che i livelli di stoccaggio del gas in Europa non sono nemmeno diminuiti. Così come l’impennata dei prezzi del gas ha contribuito in modo significativo alla sottoperformance dell’area dell’euro durante l’estate, il suo calo sta consentendo all’Europa di riprendersi completamente dalla sua scarsa performance. Ciò è evidente anche osservando l’indicatore Credit Suisse Economic Surprise Index (CESI) che misura se i dati macroeconomici sono migliori o peggiori del previsto. Il “CESI EUR” continua a salire, riflettendo la resistenza dell’economia europea, e si sta staccando dall’economia statunitense (il “CESI USA” rimane piatto). Anche la Cina sta vivendo una forte ripresa dei suoi mercati finanziari, nonostante fino ad ottobre avesse registrato una significativa sottoperformance, proprio come l’Europa. L’indice MSCI China All-Share, che misura la performance dei titoli cinesi quotati nella Cina continentale e/o a Hong Kong, e l’indice Bloomberg China Credit High Yield sono entrambi scesi solo del 18% dall’inizio del 2022, dopo un calo di circa il 40%. Oltre alle valutazioni fortemente scontate rispetto ad altri mercati sviluppati ed emergenti, a sostenere il rimbalzo degli asset cinesi è stato il cambiamento di atteggiamento del governo dopo le proteste scoppiate in diverse parti del Paese per il malcontento nei confronti delle restrizioni imposte alle automobili e per l’aggravarsi della crisi del settore immobiliare. Da allora, la Cina ha costantemente annunciato misure per rimuovere le restanti restrizioni legate al covid o per favorire la ripresa del settore immobiliare.

D’altro canto, il mercato statunitense è rimasto notevolmente debole, sottoperformando sia a dicembre che in questi primi giorni del 2023. La sottoperformance di quest’anno è ancora più significativa se si considera che i titoli growth, che avrebbero dovuto essere i principali beneficiari del calo dei tassi verificatosi quest’anno, sono notevolmente sovra rappresentati negli indici statunitensi. Questa dinamica può essere spiegata dal fatto che, dopo quasi 15 anni di sovraperformance degli Stati Uniti, il divario di valutazione con il resto del mondo si è ampliato al punto che gli investitori stanno iniziando a riequilibrare i loro portafogli assumendo una posizione più ampia nel resto del mondo. Se osserviamo il rapporto prezzo/valore contabile, possiamo notare che un anno fa l’MSCI World ex-US ha raggiunto uno sconto record del -60% rispetto all’MSCI US. Da allora il divario si è gradualmente ridotto. Probabilmente è troppo presto per affermare con certezza che la tendenza di lungo periodo sia cambiata. Se così fosse però, la cattiva performance degli Stati Uniti è appena iniziata. Se nel medio-lungo termine sottopesare gli Stati Uniti e i titoli growth sembra essere una scelta razionale, visti i fondamentali, nel breve termine è possibile che possano rimbalzare in termini relativi, dato che entrambi, Stati Uniti e growth, hanno fortemente sottoperformato negli ultimi due mesi (a maggior ragione considerando la correzione subita dal dollaro). Il catalizzatore di questo rimbalzo relativo potrebbe essere un dato sull’inflazione statunitense migliore del previsto. Il consenso di mercato prevede un calo del CPI dal 7,1% al 6,5%. L’effetto base spiega l’intero calo dello 0,6%: a dicembre dell’anno scorso i prezzi sono aumentati dello 0,6% mese su mese, e questo aumento verrà eliminato dai dati annuali, che saranno resi noti giovedì. Il costo della benzina, che negli Stati Uniti è sceso di oltre il 15% rispetto alla rilevazione precedente, è una componente volatile che ha continuato a scendere bruscamente. C’è quindi la possibilità che i dati sull’inflazione siano ancora più bassi del previsto. Ricordiamo che la Fed non ha mai smesso di aumentare i tassi d’interesse fino a quando non sono stati superiori all’inflazione. Se l’inflazione dovesse diminuire prima e più rapidamente del previsto, la Fed avrebbe la possibilità di interrompere il ciclo di rialzo dei tassi a un livello inferiore. In tal caso, sarebbe ragionevole aspettarsi che i tassi risk free possano scendere ulteriormente dai livelli attuali, con effetti positivi sui mercati azionari. A beneficiarne dovrebbero essere soprattutto i titoli growth e, di conseguenza, gli Stati Uniti. A medio termine, il quadro è più incerto. A differenza dell’Europa, dove il CESI EUR, come già detto, indica che l’economia europea è ancora forte, negli Stati Uniti si cominciano a vedere alcuni segnali di indebolimento. L’unica eccezione degna di nota è il mercato del lavoro, che continua a rimanere notevolmente forte. Tuttavia, si prevede che le vendite al dettaglio diminuiranno in termini nominali per il secondo mese consecutivo mentre il mercato immobiliare sta già subendo una grave flessione, come accennato nel precedente report. Tra gli indici di fiducia, ce ne sono sicuramente alcuni che hanno fornito indicazioni fuorvianti negli ultimi due anni. Tra quelli che non lo hanno fatto, rimanendo su livelli elevati e coerenti con un’economia che è rimasta effettivamente forte, c’è l’indice ISM Services PMI.

Ora si dà il caso che anche questo indicatore che rappresenta il settore dei servizi, quindi il 70% del PIL statunitense, sia letteralmente crollato nell’ultima rilevazione, ad un ritmo visto solo all’inizio delle recessioni degli ultimi decenni. E qui sta il problema: È possibile che i tassi d’interesse diminuiscano e che i mercati azionari rimbalzino a gennaio, se la lettura dell’inflazione è favorevole e non ci sono sorprese dalla stagione dei bilanci. Tuttavia, ciò comporterebbe un ulteriore allentamento delle condizioni finanziarie, che potrebbe non essere gradito alla Federal Reserve, dato che la strategia della banca centrale statunitense nell’ultimo anno sembra essersi concentrata sul recupero della credibilità della narrativa dell’«inflazione transitoria» attraverso un atteggiamento apertamente aggressivo. Pertanto, c’è la possibilità che la Fed commetta un altro errore di policy nella riunione del 1° febbraio, in risposta a un precedente errore (non aver aumentato i tassi quando era necessario), aumentando eccessivamente i tassi di interesse nonostante alcuni segnali di rallentamento economico all’orizzonte. Godiamoci la festa finché dura. Dobbiamo però rimanere cauti per evitare di essere colti di sorpresa.

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