In un’epoca dominata da slogan, performance trimestrali e visibilità mediatica, vale la pena volgere lo sguardo a un modello di banca profondamente diverso: discreto, riflessivo, essenziale.
Il racconto che segue, condiviso su LinkedIn dall’area manager di Fideuram Ispb, Loris Ventura, è un viaggio nella memoria di una finanza sobria ma influente, incarnata da figure come Enrico Cuccia e da un’istituzione che ha segnato, senza clamore, decenni cruciali della storia economica italiana. Un omaggio a quel modo antico — e sorprendentemente attuale — di concepire il credito come strumento di crescita e stabilità, e non come fine in sé.
“C’erano una volta la riservatezza, la competenza sobria, la capacità di incidere senza apparire. C’era una volta una banca. Non quella dei bilanci trimestrali scintillanti e delle operazioni di M&A in prima pagina, ma quella raccolta e potente di Enrico Cuccia, l’uomo che «pesava le azioni» anziché contarle.
In un’Italia ancora alle prese con le macerie del secondo conflitto mondiale, questa banca nasceva nel 1946 per volontà di Raffaele Mattioli e dello stesso Cuccia, con la missione di fornire credito a medio termine all’industria. Ma nel giro di pochi anni, quell’istituto apparentemente “tecnico” divenne il fulcro discreto di una delle stagioni più straordinarie del capitalismo italiano. La sua sede, in via Filodrammatici, era il luogo dove si componevano gli equilibri dell’industria nazionale e si difendevano le aziende italiane da mire predatorie.
Nel “salotto buono” della finanza, Cuccia muoveva i fili senza mai alzare la voce. Mai un’intervista, mai una conferenza. Il potere vero non aveva bisogno di mostrarsi.
La banca, sotto la sua guida, non era solo una banca: era un presidio di cultura economica, un garante di stabilità nei momenti turbolenti, un faro per l’interesse nazionale.
Quando oggi si parla di governance, ESG e sostenibilità, viene quasi da sorridere pensando a quanto, già allora, quella banca praticasse un’etica della responsabilità, anche senza proclamarla. Era sostenibile la banca che evitava il corto-termismo per salvaguardare l’impresa, che parlava poco ma rifletteva molto, che selezionava le sue alleanze con pazienza diplomatica.
Lontani i tempi della regia su Fiat, Montedison, Generali. Lontani i giorni dell’OPA Olivetti-Telecom, capolavoro strategico che vide la banca ancora una volta silenziosa protagonista.
Oggi lo scenario è diverso. La banca contemporanea — solida, dinamica, proiettata sul wealth management e sull’innovazione — ha fatto della modernità la sua cifra. Ma lo ha fatto abbandonando, pezzo dopo pezzo, l’eredità di Cuccia, fatta di sobrietà, di una finanza al servizio dell’impresa e del Paese, e non il contrario.
Giorgio La Malfa, che a Cuccia ha dedicato un libro denso di memoria e documenti, lo ricorda bene: «In Cuccia c’era l’idea di una finanza ordinata, funzionale all’economia reale. Non il culto dell’utile immediato, ma la costruzione di valore duraturo». Un pensiero che oggi sembra antico, eppure risuona come modernissimo nella crisi di fiducia che attraversa le istituzioni finanziarie globali.
Perché un sistema bancario forte si misura anche nella capacità di custodire il tessuto produttivo di un Paese. E in quel mestiere antico, difficile, Cuccia era il maestro”.